una poliziotta di fronte ai fratelli Kouachi

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È stata una delle prime ad arrivare sul posto la mattina del 7 gennaio 2015: un’agente di polizia della brigata di mountain bike dell’11° arrondissement di Parigi. Quella mattina ha perso un collega, Ahmed Merabet, e ha vissuto con il trauma di aver affrontato i fratelli Kouachi.

Pubblicato il 01/06/2025 05:30

Tempo di lettura: 4 minuti

L’agente di polizia intervenuta con i suoi colleghi durante l’attacco a Charlie Hebdo del 7 gennaio 2015. (WILLY MOREAU / RADIO FRANCIA)

“C’è un prima e un dopo. Ovviamente vediamo la vita in modo diverso, impariamo a convivere con questo stress post-traumatico che avremo dentro di noi per tutta la vita” : quando la poliziotta interviene questo mercoledì 7 gennaio 2015, è ben lontana dall’immaginare che un attacco terroristico abbia appena preso di mira la redazione del giornale Charlie Hebdo. Quel giorno persero la vita dodici persone, compreso uno dei suoi colleghi. “Eravamo in tre, siamo usciti con le nostre mountain bike e lì abbiamo sentito una chiamata di soccorso, il nostro direttore di stazione parlava alla radio, dicendo : “10 rue Nicolas Appert, spari” ma senza ulteriori precisazioni e cioè che è stato il BAC ad essere contattatolei ricorda. Ci siamo guardati con i miei colleghi, non eravamo particolarmente lontani, quindi ci siamo detti che ce la saremmo presa con calma”.

Il brigadiere si è unito agli equipaggi della BAC insieme ai suoi colleghi che non sapevano, in quel momento, cosa stesse accadendo. All’improvviso, dice la poliziotta, “dietro di noi sono comparsi due uomini, uomini incappucciati e vestiti di nero che hanno gridato ‘Allah akbar’ e ci hanno sparato. Allora ero in bici, ho gettato la bici a terra, ho corso come potevo per salvarmi. I proiettili sono passati pochi centimetri dietro la mia schiena, sento ancora il sibilo dei proiettili che risuonano”.

“Abbiamo visto il mio collega Ahmed a terra. Ho visto un po’ di sangue sulla sua gamba e gli ho detto ‘Ahmed, non preoccuparti, andrà tutto bene’. Ma un po’ ho capito che “non stava bene, aveva gli occhi vitrei, ho provato a parlargli, non mi ha risposto”.

La poliziotta

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“Ero lì, robotico e professionalericorda la giovane donna. Ho conservato le tracce degli indizi (…) Ho anche detto al signor Hollande: ‘stai attento, stai camminando sulle tracce degli indizi’, era uno scherzo”. Gli agenti di polizia sono stati trasportati all’ospedale Georges-Pompidou, dove hanno incontrato uno psicologo. “E poi apprendiamo della morte di Ahmed Merabet, e allora tutto crolla perché vedo l’importanza del pericolo e il fatto che anche noi siamo quasi rimasti lì. Chiaramente, stiamo ripetendo una scena 10.000 volte nella mia testa: “Perché l’ho fatto?” Perché non l’ho fatto? E perché Ahmed è morto e perché io sono qui?». È davvero molto, molto complicato”.

Dal 7 gennaio 2015 la poliziotta, in servizio dal settembre 2004 e che inizialmente si definisce “una donna sul campo”non è tornato sulla pubblica via. “Mi ha traumatizzato così tanto che non posso più indossare l’outfitammette. Sono stato seguito per dieci anni da psichiatri e psicologi e con cure. Tocca ferro perché ha funzionato ma dovresti sapere che mi ha lasciato comunque parecchi postumi. Sono diventato un po’ maniacale, sobbalzo al minimo rumore, non sopporto la folla e a volte sono irritabile”.

Dopo l’aggressione, la poliziotta è stata trasferita in un altro dipartimento, sempre a Parigi, nel giugno 2016, per poi essere trasferita nel settembre 2017 in una stazione di polizia, lontano da Parigi. Poi, dal 2019, la giovane è diventata responsabile della comunicazione. “Mi sono unito alla mia famiglia e ai miei cari e non volevo più vivere tutti questi attacchi, tutto questo sconvolgimento che mi rendeva una persona che si sentiva chiusa in se stessa e che non stava davvero bene.confida. Avevo la sensazione di non sentirmi più al sicuro e avevo bisogno di vedere qualcos’altro.”

Il processo per l’attentato del gennaio 2015 è stato un momento estremamente difficile per questo ex collega di Ahmed Merabet, ma è stato anche un sollievo. “Mi ha fatto bene.” Quando ricorda le manifestazioni dopo gli attentati, “D“Avere così tanto riconoscimento in quel momento, ovviamente, è belloconfida. Ora è vero che la gente non ricorda più tutto questo. È un peccato perché avrei voluto che i cittadini ci applaudissero ogni giorno come hanno fatto il 7 gennaio 2015. Non dobbiamo aspettare che siano gli attentati a procurarci tanti applausi. Voglio anche che ci ricordi che gli agenti di polizia, al di là della divisa, sono persone che danno il massimo. Siamo esseri umani, non siamo macchine”.

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