Oggi, a St. Moritz, Lindsey Vonn è tornata. Un 14simo posto straordinario
Caro Direttore, viviamo in un mondo anestetizzato e qui forse di più… Un mondo che ci vuole spettatori: silenziosi, distratti, assopiti davanti a schermi che ci mostrano storie prefabbricate, vite altrui da osservare senza mai partecipare o legati a passati radiosi che guardiamo con rimpianto.
Ma ogni tanto, tra il grigiore delle giornate ordinarie, accade qualcosa. Qualcosa che squarcia il velo dell’abitudine e ci ricorda o ci dovrebbe ricordare che la vita vera non è fatta per essere solo guardata: è fatta per essere vissuta, con tutte le sue imperfezioni, cadute e resurrezioni.
Oggi, a St. Moritz, è successo qualcosa che merita di essere raccontato. Lindsey Vonn è tornata.
Non è un ritorno per vincere. Non c’è una medaglia, né un primo posto, né un trofeo. C’è invece qualcosa di più grande: un gesto che parla a chiunque abbia mai sentito il richiamo del proprio spirito, la voglia di lottare anche quando il corpo sembra gridare “basta”.
Dopo sei anni di assenza, a 40 anni e con un ginocchio in titanio, Lindsey Vonn si è presentata al cancelletto di partenza del SuperG e ha tagliato il traguardo al 14° posto su 57 concorrenti.
Un risultato modesto, direbbe qualcuno, modesto quasi quanto chi lo dicesse. Un numero lontano dal podio peraltro occupato anche da una italiana. Ma io, Direttore, in quel 14° posto ho visto qualcosa di straordinario. Ho visto la purezza dello spirito umano, quella forza invisibile che spinge alcune persone a vivere al massimo.
Spesso, troppo spesso, liquidiamo, non io, imprese come questa con una sola parola: “talento”. È una parola comoda, pigra, che semplifica ciò che in realtà è complesso, profondo, inafferrabile.
Direttore, il talento non è mai un dono della pura genetica. È un motore. Un fuoco che si alimenta con la passione, la perseveranza, il sacrificio e una sana potente dose di insoddisfazione.
Sì, perché l’insoddisfazione – quel sentimento che molti rifuggono senza riuscire – è il carburante di chi non si accontenta, di chi non vuole vivere a metà. Talento è determinazione, disciplina, curiosità. È scegliere, decidere, credere e andare avanti quando sarebbe più facile fermarsi. Talento è anche per me un atto indiretto di ribellione: contro la mediocrità, contro il grigiore, contro l’idea che sia meglio non rischiare, non prendersi responsabilità , vivere in attesa di crepare.
E qui, Direttore, mi permetta una digressione. Pochi giorni fa, Siena ha avuto l’onore di ospitare una figura straordinaria. Un atleta, uno di quei “soggetti alieni” che incarnano la pura essenza del talento come descritto. Ho avuto il privilegio di percorrere un lungo pezzo di strada al suo fianco, anni fa, e posso dirle che è uno di quelli che portano dentro il motore di cui parlavo prima: una combinazione unica di passione, determinazione e visione, di antifragilità.
Eppure, mi permetta una nota. Quando questo spirito puro ti si palesa deve essere celebrato nella sua autenticità, è non adattato, inquadrato, piegato alle necessità di un protocollo, sovraordinato. Questo, Direttore, è il rischio che corriamo: trasformare il talento vivo e pulsante in un’immagine sbiadita, confortevole, che non disturbi e cominciamo con la scuola a ingabbiare le potenzialità invece di potenziarle. Lo spirito autentico, quello che ci ispira e ci solleva, non può essere piegato.
Quello spirito, Direttore, non appartiene solo ai grandi atleti. L’ho visto anche in situazioni molto diverse, lontane anni luce dalle piste da sci.
Mi permetta di raccontarle di W.W., un mio paziente oncologico di molti anni fa. Era uno svizzero esile, con una storia di vita travagliata: aveva lavorato in mezzo mondo, facendo i mestieri più disparati. Quando l’ho conosciuto, era muratore, e sapeva che gli rimaneva poco tempo.
Eppure, quest’uomo non si piangeva addosso. Aveva il coraggio e la lucidità di trasformare la tragedia in una lezione. Un giorno, vedendomi in difficoltà nel confrontarmi con la sua condizione, mi disse: “Non si preoccupi per me. So che morirò presto, ma questa malattia è stata un’opportunità. Mi ha permesso di capire chi sono veramente”.
Direttore, quella frase è rimasta scolpita nella mia memoria come sulla pietra. L’ho vista oggi, riflessa nel sorriso di Lindsey Vonn mentre tagliava il traguardo. È la stessa filosofia, lo stesso spirito: la consapevolezza che ogni giorno, ogni sfida, ogni ostacolo può essere un’occasione per scoprire il proprio valore, quello che i pavidi non potranno mai scoprire.
Ecco, Direttore, il punto centrale della mia riflessione: abbiamo bisogno di storie.
Storie belle, storie vere. Storie che ci tirino fuori dal grigiore, che ci scuotano, che ci aiutino nel capire cosa significa vivere davvero. Storie che parlino ai troppi spettatori passivi, a quelli che si accontentano di guardare dal divano, e che li invitino a scendere in pista, a partecipare.
Cari spettatori, tantomeno serve esserlo di un passato che non c’ è più, che è esistito, che deve invece ispirarci a provarci di nuovo. Peccato per quelli che anche nel passato erano spettatori ugualmente ma con la pancia piena. Per loro non vi sarà un futuro se non passivo come tutta la loro vita. Continueranno a lamentarsi ed attendere che qualcuno faccia qualcosa per loro.
Ma Lindsey Vonn ci dice che ha cominciato a pensare ad un ritorno il giorno dopo l’intervento al ginocchio. Ha usato il suo passato per definire il suo futuro. Successe anche a me nel mio piccolissimo quando nell’83 mi sfondai un polmone sotto sforzo durante una regata e mi feci operare per forza perché volevo tornare in fretta. Operato a Maggio andai in Africa dopo un mese con il braccio destro che si alzava per metà e con mia mamma intimorita ma anche curiosa per queste follie. Anche lei era un antisistema, una che i diritti li aveva chiari e li perseguiva nel quotidiano invece di parlarne.
Non sarebbe stato più folle accettare i limiti che qualcuno mi prospettò quando ebbi il problema? Non mi interessa sapere se fu la soluzione giusta ma era giusta perché era la mia soluzione.
Chissà forse non accettiamo di “morire” ma sempre meglio che esserlo già da vivi.
La storia di Lindsey Vonn oggi è una di queste. Non è solo una gara, non è solo un ritorno. È un messaggio potente: non importa dove sei arrivato, importa dove hai ancora il coraggio di andare spinto da passione e insoddisfazione. Essere insoddisfatti è una condanna se non agisci nella tua individualità. Queste storie ci ricordano che la vita non è fatta per essere vissuta in bianco e nero, ma a colori. Certo, vivere davvero significa rischiare, significa accettare il dolore, la fatica, il fallimento. Ma significa anche scoprire il sapore dolce-amaro della vittoria personale, quella che non ha bisogno di medaglie per essere celebrata.
Direttore, la mia speranza è che queste storie possano raggiungere almeno qualcuno. Qualcuno, tanti, troppi, che oggi vivono nell’ombra, spettatore passivo di una vita che non osa toccare. Voglio credere che raccontare storie come quella di Lindsey Vonn, o di quell’atleta straordinario che abbiamo ospitato a Siena, o quella di W.W. possa accendere una scintilla.
Che possano essere un antidoto al grigiore, una chiamata a vivere determinandosi. Ce ne è bisogno e qua di più, qua dove il grigiore si nasconde nel definirci attraverso i ricordi di una storia passata che a guardare bene era l’anticamera della fine che poi c’ è stata
Perché la vita vera non aspetta. La vita vera non è comoda, né facile, né lineare. Ma è l’unica che valga davvero la pena di essere vissuta.
Oggi, Lindsey Vonn ci ha dato una lezione di vita, una lezione di coraggio, una lezione di cosa significa essere umani. Sta a noi decidere se vogliamo solo guardarla o se abbiamo il coraggio di seguirla.
Un saluto appassionato, un ribelle in lotta contro il grigiore.
Paolo Benini