Da diversi mesi si levano voci contro l’escalation reazionaria in atto in Place Beauvau contro gli immigrati. Da Sophie Binet a Olivier Faure, passando per gran parte della sinistra istituzionale e sindacale, la “risposta” alle politiche anti-immigrazione del governo rientra però nello stesso discorso. L’offensiva razzista di Retailleau sarebbe criticabile sul piano morale, politico, ecc., ma soprattutto perché mancherebbe l’essenziale: gli “immigrati” servire a qualcosa; sono utile.
«La nostra posizione è dire che dobbiamo porre fine a una forma di ipocrisia, con queste donne e questi uomini che tengono in piedi il Paese, che lavorano, che spesso sono in condizioni di sfruttamento, e questi devono essere regolarizzati» spiega Olivier Faure. Sophie Binet sostiene inoltre che: “Gli immigrati lavorano e riportano al Paese molto più di quanto costano”.
Tutte le inchieste e gli studi sul tema dell’immigrazione confermano questa affermazione: gli immigrati portano più di quanto costano. C’è però il problema di racchiudere immediatamente qualsiasi dibattito sull’immigrazione in una logica contabile. Poiché l’immigrazione “fa profitto”, dobbiamo ancora chiederci cosa siano gli immigrati redditizio ? E molto spesso questo porta alla divisione tra lavoratori privi di documenti e altri lavoratori privi di documenti. È il caso in particolare di Olivier Faure, segretario generale del Partito socialista, che difende la regolarizzazione riservata solo ai lavoratori privi di documenti.
La logica, al di là della differenza di atteggiamento e di programma, in realtà non è diversa da quella che muove le varie organizzazioni padronali riguardo all’attuale offensiva xenofoba. Assumendo una posizione che qualifica le proposte del ministro dell’Interno, il presidente del Medef ha difeso in tale veste lo scorso settembre al microfono di France Info la necessità di “non astenersi dal ricorrere a tutti i livelli di qualificazione alla forza lavoro immigrata. Ha aggiunto che la sua organizzazione è “contro gli immigrati privi di documenti perché in termini di distorsioni della concorrenza, è inaccettabile”. Una posizione sostenuta dalla ministra del Lavoro Astrid Panosyan-Bouvet che ha spiegato di voler “lavorare” sull’argomento con il collega dell’Interno, Bruno Retailleau.
E una linea che è anche in linea con la proposta di nominare le professioni in tensione nell’ultima legge sull’immigrazione portata avanti da Gérald Darmamin e votata lo scorso gennaio. Questo titolo, difeso da una parte dei datori di lavoro e dalla sinistra politica e sindacale, mirava a promuovere la regolarizzazione dei lavoratori privi di documenti nei settori in cui la manodopera scarseggia. Questa misura, presentata durante i dibattiti come l’aspetto progressista della legge, in realtà costituiva solo un mezzo per ratificare il sovrasfruttamento dei lavoratori privi di documenti nei settori più difficili e mal retribuiti. Ad esempio, nel solo settore dell’assistenza alla persona, considerato un settore in tensione, sono presenti il 25% di lavoratori stranieri.
Questa logica espansiva si è accompagnata, a partire dagli anni 2000, dall’intensificarsi della caccia agli stranieri clandestini sul posto di lavoro, contribuendo così in larga misura ad alimentare il sovrasfruttamento dei lavoratori stranieri. La legge del 24 luglio 2006, che ha reintrodotto il permesso di soggiorno per lavoro e ha autorizzato regolarizzazioni eccezionali per gli immigrati privi di documenti sponsorizzati dal datore di lavoro con un contratto di lavoro, ha avuto il corollario di incoraggiare ulteriormente i lavoratori immigrati ad accettare qualunque lavoro, rendendoli più dipendenti dai loro capi. Allo stesso tempo, coloro che si sono rifiutati di occupare posti vacanti e hanno condizioni di lavoro inadeguate hanno visto la loro espulsione facilitata. Ricatto che avvantaggiava solo i padroni.
Inoltre, questa regolarizzazione quasi esclusivamente attraverso il lavoro si inserisce in una logica di moltiplicazione e gerarchizzazione dei permessi di soggiorno che ne consegue bene ad un soggiorno precario. Le recenti politiche migratorie restrittive organizzano questa fabbrica clandestina che è in gran parte funzionale al sistema capitalista. Questo “organizzazione piramidale” [1] dell’immigrazione in funzione della stabilità del permesso di soggiorno esercita una pressione permanente, come una spada di Damocle, sulla testa dei lavoratori irregolari affinché accettino la loro destinazione al supersfruttamento.
Dal sovrasfruttamento al consenso razzista
Tutte queste posizioni, che hanno in comune il fatto di condizionare in modo più o meno presunto la regolarizzazione degli immigrati privi di documenti sulla loro redditività per i datori di lavoro, giocano anche un gioco pericoloso e ancora più insidioso. Questo falso dibattito sui costi/benefici dei lavoratori privi di documenti per i datori di lavoro, infatti, aiuta a rafforzare le politiche pro-immigrazione scelte contro tale immigrazione e, in definitiva, alimenta il consenso xenofobo e razzista sul lavoro. L’immigrato viene allora percepito come accettabile a condizione che sia una risorsa, un corpo che può essere costretto a lavorare a piacimento che consentirà ai datori di lavoro di abbassare il costo del lavoro, anche “bianco”, in settori non delocalizzabili come costruzione, assistenza personale o ristorazione
Accettare di difendere la logica dell’immigrazione scelta significa difendere la precarietà sofferta da tutti gli immigrati privi di documenti e il deterioramento delle condizioni dell’intera classe operaia. Una tale posizione equivale ad adattarsi in gran parte alle proposte del Raggruppamento Nazionale e, più in generale, alle politiche migratorie reazionarie. Si cerca di “rassicurare” i lavoratori nazionali a cui è stato detto per anni che gli immigrati “gli ruberanno il lavoro” o che “approfitteranno dei servizi pubblici”. Come per dire: “non preoccupatevi troppo, i lavoratori nazionali – e anche i bianchi – qualche immigrato ci portano i soldi”. Proposte che si rivelano quindi inutili o addirittura pericolose nella lotta al razzismo di cui è permeata la nostra classe.
In questo percorso, però, la “sinistra” ha giocato un ruolo attivo. L’adattamento al linguaggio liberale e alle sue politiche non è infatti una novità. Penseremo, ad esempio, alla linea protezionista e nazionalista degli anni Marchais nel PCF o anche a François Mitterrand che, negli anni ’90, affermava che la “soglia di tolleranza” dei francesi verso gli stranieri era stata raggiunta negli anni ’70. Aderendo gradualmente alla posizione della destra, il PS ha finito per imporre l’idea che non ci sarebbero alternative e che l’immigrazione costituirebbe in sé un problema le cui conseguenze negative dovrebbero essere minimizzate.
Infine, noteremo in che misura le discussioni sui “benefici” del lavoratore immigrato, dalla RN a sinistra, si inseriscono in una discussione più ampia sulla produttività dei lavoratori immigrati o meno. Come non vedere che l’escalation anti-immigrazione dell’estrema destra e del macronismo e l’offensiva antisociale contro il “welfare” condividono lo stesso vocabolario e la stessa logica intrinseca? Come non vedere che nell’attuale sequenza di austerità sono tutti i lavoratori a essere minacciati qua e là di licenziamenti o tagli salariali proprio perché la crisi significa che non “portano” più abbastanza?
Ci sarebbe ovviamente una discussione più ampia da portare al dibattito su chi fa “governare la società” e soprattutto a beneficio di chi. Ma riducendo la questione alla sola questione dell’immigrazione, i fautori dell’“utilità dell’immigrazione” partecipano a una doppia divisione: tra gli immigrati stessi (quelli che sarebbero utili e quelli che non sarebbero utili), poi tra lavoratori immigrati e lavoratori nazionali.
Contro queste logiche di divisione e adattamento al consenso xenofobo e securitario, i sindacati e le organizzazioni che affermano di essere di sinistra dovrebbero al contrario cercare di unificare i lavoratori nazionali e immigrati e rifiutare la logica della precarietà del restare a casa. Ciò implica richiedere la regolarizzazione senza condizioni di tutti gli immigrati privi di documenti, l’apertura delle frontiere e la libertà di movimento per tutti. Mentre il governo porta avanti importanti politiche di austerità e i datori di lavoro pianificano massicci licenziamenti, queste richieste devono essere accompagnate dalla difesa della condivisione dell’orario di lavoro tra tutti e dalla fine dei contratti precari. Queste sono le uniche misure in grado di ridurre la disoccupazione, porre fine al sovrasfruttamento di una parte della nostra classe e alla divisione dei lavoratori stranieri e nazionali che avvantaggia solo i grandi capitalisti.