Lettera del giorno –
La mia fatica non è solo personale, è collettiva
Ali Almohammed, coordinatore medico di Medici Senza Frontiere (MSF) in Libano, ci ha inviato questa lettera molto toccante.
Lettere dei lettori
Pubblicato oggi alle 7:47
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Ginevra, 12 novembre.
Beirut racchiude una parte del mio passato. Poiché ho vissuto e lavorato lì molte volte tra il 2019 e il 2021, le sue strade e le sue persone sono diventate profondamente legate ai miei ricordi. Oggi sono messi in ombra dalla sofferenza della popolazione. Le aule, un tempo affollate, accolgono bambini e genitori che lottano contro il freddo e la paura, temendo il prossimo attacco aereo.
Ogni giorno visito questi rifugi. Tutti quelli che incontro sognano una casa dove i loro figli siano al sicuro. Questa aspirazione risveglia in me ricordi dolorosi: la fuga dalla Siria nel 2014, i mesi trascorsi tra vari rifugi in Turchia e nel Kurdistan iracheno, senza mai sapere dove andare dopo.
Volevo diventare un medico per curare e salvare vite umane. Ma dopo più di dieci anni con Medici Senza Frontiere, in Siria, Sud Sudan, Ucraina, Iraq, Sudan e ora in Libano, ho visto vite irreparabili. Ogni missione è un capitolo di resilienza in mezzo a un dolore estenuante, tanto per gli altri quanto per me.
Sono stanco di assistere a questa sofferenza e ai sistemi che la perpetuano. Il mio viaggio è iniziato nel 2012, ad Aleppo, dove ho studiato medicina e ho costruito il mio futuro. La guerra mi ha disperso e mi ha costretto a fuggire, lasciandomi sradicato da tutto ciò che mi era familiare. Ho perso la casa, il senso di pace e, ad ogni trasloco, quest’ansia: quando arriverà la prossima tragedia?
Ritrovo questa stanchezza nei volti che incontro. Nei campi in Iraq, nei rifugi in Libano o negli ospedali del Sud Darfur, le persone che incontro sono distrutte, sono sopravvissute alle bombe, alle epidemie e portano cicatrici profonde.
Vedo questo trauma in loro, ma lo porto anche io. Vedo i volti dei pazienti e degli amici dispersi a Kobané, bambini la cui vita è finita a causa del conflitto. Questi ricordi, incisi in me, mi ricordano i limiti della nostra azione. I nostri sforzi non sono sufficienti per riparare i sistemi che perpetuano questa sofferenza.
Tuttavia, i momenti di umanità mi spingono ad andare avanti. Il sorriso di una mamma che vede curare il suo bambino, il ringraziamento di una donna che ha perso tutto a cui ho dato le medicine. Questi momenti di resilienza mi ricordano che c’è sempre la luce in mezzo all’oscurità.
La mia fatica non è solo personale, è collettiva. È anche quella di tutti gli operatori umanitari che, in prima linea, spesso agiscono nell’indifferenza. È l’esaurimento di un mondo che ha visto troppa sofferenza, con troppo pochi cambiamenti.
Sogno un mondo in cui le famiglie non siano più distrutte dalla violenza, dove i bambini crescano in pace, dove i medici curino senza timore per la loro vita. Un mondo in cui potrei stare con mio figlio, in un luogo in cui la pace non sarebbe più un’illusione e il mondo smetterebbe di essere esaurito.
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