È stato difficile convincere il papa, che presto compirà 88 anni, a fare il viaggio?
Non ho intrapreso un’operazione di seduzione. Sapevo che il tema del convegno organizzato nel fine settimana del 14 e 15 dicembre ad Ajaccio, “La religiosità popolare nel Mediterraneo”, poteva interessarlo. Gli ho proposto di venire, la prospettiva ha cominciato a prendere forma l’estate scorsa ed eccoci qui.
La visita del papa sarà la seconda in Francia in poco più di un anno. Quindi non snobba il nostro Paese, contrariamente a quanto pensano ancora molti cattolici?
Al contrario. Nella sua ultima enciclica Ci amavacita modelli di spiritualità francese. Nella sua lettera pubblicata lo scorso luglio e dedicata alla letteratura, cita molti autori del nostro Paese. È il suo modo di celebrare la cultura francese. E sa che la Francia ha un ruolo speciale da svolgere grazie al suo patrimonio unico, alla sua creatività, alla sua capacità di tornare alle origini. Quando il Paese attraversa una crisi, sa come rialzarsi.
Come vede il Papa la Corsica?
È un’isola del Mediterraneo e conosciamo l’importanza di questa regione per il Papa. Inoltre, geograficamente, si trova tra Italia e Francia. L’isola rappresenta una realtà culturale e spirituale ed è riuscita a preservare le sue tradizioni. Per il Papa questo ha un prezzo. Il Mediterraneo è stato, per millenni, culla di civiltà. È importante che ci sia dialogo tra queste diverse culture, lingue e religioni. Questo convegno sarà l’occasione per vedere come in Sicilia, Sardegna, Spagna e Corsica il sacro si manifesta nelle strade e come la laicità viene vissuta in questi diversi luoghi.
Qual è lo stato della Chiesa di Corsica?
La pratica non è più elevata lì che nel continente. La nostra originalità insulare consiste piuttosto nell’assenza di ostilità ideologica. Verso i preti, i diaconi, i religiosi c’è simpatia, rispetto, attesa, che si sia credenti o meno. Nel continente troviamo più indifferenza e perfino ostilità. Va detto che la cultura locale ha garantito la continuità delle tradizioni: la lingua, le preghiere, le processioni… Questa si è radicata oralmente, attraverso i canti.
C’è anche l’importanza delle confraternite, che sono in forte espansione…
Sì, riuniscono in totale circa 3.000 persone, tra cui molti giovani. Sono nati nel XIV secolo e sono molto legati alla tradizione del mio ordine religioso. Tutti portano la corda, come noi francescani. La maggior parte delle volte sono laici, vicini alle comunità. I loro valori sono la fraternità, la solidarietà, sono impegnati a favore dei più disagiati.
E poi c’è la dimensione spirituale poiché cantano, ad esempio durante i funerali, guidano i cortei in abiti all’alba e colorati, offrono veglie di preghiera. Stiamo rivitalizzando un’antica tradizione, non per resuscitarla in modo nostalgico ma per trarne belle intuizioni per il nostro tempo. Abbiamo anche nominato due diaconi per sostenerli e formarli per evitare comportamenti isolati che si trasformerebbero in settarismo. Accanto a loro, contribuiscono al dinamismo della Chiesa anche i nostri 80 sacerdoti, tra cui una trentina tra africani, polacchi e libanesi. Il clero venuto da fuori ci aiuta a non abbandonare i territori, i piccoli borghi e quindi le persone.
Quali sono gli altri segnali di fervore nell’isola?
Quest’anno abbiamo più di 200 cresime di adulti (1), abbiamo accompagnato 160 battesimi di catecumeni. Abbiamo sei seminaristi. Sono entusiasti, conoscono il terreno e soprattutto vogliono dare il massimo. Senza cadere nel peccato di David di voler contare le sue truppe per misurare la sua forza, è delizioso!
Resta il fatto che le assemblee domenicali, come nel continente, non sono così frequentate come si sperava… Cosa può fare la Chiesa per indurre la gente a partecipare di più alla messa?
Non dobbiamo presentare una Chiesa triste e fatalista. In passato la Chiesa era un sogno. Oggi può e ha il dovere di ispirare sogni. Soprattutto, non lasciare che ti faccia piangere! I canti, i campanili, le confraternite, tutto questo univa le persone. I futuri preti dovranno unire e far sognare.
Partecipare alla messa è importante perché non solo ci nutre spiritualmente ma unisce persone: di destra, di sinistra, di tradizioni e professioni diverse, giovani, anziani… Quando prendo la macchina e faccio chilometri fino a andando a incontrare gli abitanti di un minuscolo villaggio – e per me è un privilegio – ci salutiamo a messa ma viviamo anche un momento di amicizia. Tutti si ritrovano a pranzo attorno ad un cinghiale o ad un vitello corso. Il cocktail che unisce culto, cultura e convivialità è attuale per la nostra società.
Come convivere con la secolarizzazione che colpisce anche l’Isola della Bellezza?
Innanzitutto ricordando che è un’opportunità perché accompagnata da una grande ricerca spirituale. Oggi vediamo una vera sete di spiritualità. Spetta alla Chiesa cattolica indicare, senza cercare di indottrinare, una possibile via verso la felicità. Il nostro ruolo come tutti i membri della Chiesa è quello di indicare la strada e di interrogarci. Non mi dico: “I giovani non vanno a messa, che disastro!” Ma piuttosto: “Va bene, non verranno. Perché? Cosa stiamo facendo per cambiare la situazione?” Non è il problema dei giovani, è il problema della Chiesa. Quanto siamo audaci? Quale creatività? Accontentarsi di constatare che la gente non viene più a messa e gridare nella desolazione è troppo facile.
Quindi cosa fare?
Dobbiamo puntare alla gratuità e al bene delle persone. Non cerchiamo il nostro interesse. La libertà ci libera dalla tentazione della seduzione, del dominio e della manipolazione.
Il secondo punto è il bene di ogni persona: rispettare la libertà della persona, la sua dignità. Lo dico con passione: noi, membri della Chiesa, abbiamo un ruolo unico e meraviglioso, quello di far nascere il meglio che ogni persona ha. È magnifico! Ci sono tanti media, tanti social network, che si interessano solo a ciò che non è bello, non buono, oscuro in ognuno di noi. Ci saranno sempre dei profeti che diranno cosa non va. Da questo punto di vista siamo serviti. Ma chi ci dice oggi che il mondo può essere più bello se applichiamo e incarniamo l’ideale del Vangelo? Dobbiamo cercare il buono che c’è in ognuno, il diamante che porta dentro di sé. Finché il diamante rimane sotto la roccia, finché non incontra la luce, non brilla. Molti nostri contemporanei sono diamanti: c’è potenzialità, bellezza, bene. Sta a noi essere questa luce.
Sei un religioso francescano. Cosa ti tocca nella figura di Francesco d’Assisi?
Ne ho sentito parlare per la prima volta nel seminario minore, quando avevo undici anni. Allora erano gli uccellini, il presepe… ne avevo un’immagine romantica. Successivamente ho scoperto aspetti della sua vita che mi hanno segnato per sempre. Lo riassumo così: il binomio “riparazione e visione”. Come vescovo e cardinale, sono toccato dalla sua chiamata a lavorare per riparare la Chiesa che, anche nel nostro tempo, è stata danneggiata. Riparando ripristiniamo la sua bellezza originaria. Non è un atto di archeologia, estetica o politica. Si tratta di far emergere ancora una volta la bellezza di un’istituzione che porta con sé un’anima e un carisma. E questo si può fare solo offrendo il Vangelo. In tal modo, portiamo avanti una visione. I due sono collegati. Una visione del mondo e della società. Non si tratta di dominare il mondo o di demonizzarlo, di essere tristi o fatalisti. Penso alle parole di san Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo”. (2) Ancora una volta abbiamo un ideale da proporre.
Dovresti essere idealista quando sei cristiano?
SÌ. Ancora troppo spesso ci vengono proposte ideologie. Negli anni 1968 e successivi lo slogan anarchico era: “Né Dio né padroni”. Dio, lo abbiamo evacuato. Di maestri ne abbiamo avuti tanti. Sessant’anni dopo, siamo più felici? Il mondo sta migliorando? Noi cristiani abbiamo un ideale potente, meraviglioso, che è il ritorno al Vangelo. Il Vangelo di Matteo ci dice: «Non giudicate per non essere giudicati» (3), «Amate i vostri nemici» (4), Giovanni ci dice: «Amate gli uni gli altri come io ho amato voi» (5). Non è poesia, è un ideale. Senza un ideale non c’è più speranza e c’è la depressione. Nello sperimentare questo movimento tra il reale e l’ideale c’è una tensione e questo è positivo, costruttivo, vitale.
La tua preghiera per la Francia?
Possa riscoprire la libertà e l’audacia della sua fede.
Molti ti rendono uno papabile (6) ben posizionato in vista di un futuro conclave. Una reazione?
Tutti i cardinali lo sono per definizione papabili e creatori di papi. Ma abbiate pietà, ho 56 anni: se mi fanno papa, resterò molto a lungo e sono solo un cardinale novizio… Allora lasciamo il posto a qualcuno con un po’ più di esperienza.
Commenti raccolti da Romain Mazenod