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Antimicrobici e malattia di Parkinson: risultati inattesi

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La malattia di Parkinson colpisce attualmente più di 6,1 milioni di persone in tutto il mondo. Oltre ad alcuni fattori genetici e ambientali coinvolti nella sua eziologia, lavori recenti hanno suggerito il possibile ruolo di un’alterazione del microbiota intestinale (disbiosi) nell’innesco della malattia.

Nei ratti è stato dimostrato che gli aggregati proteici, costituiti dalla proteina alfa-sinucleina coinvolta nel morbo di Parkinson, possono migrare dall’intestino al tronco cerebrale, attraverso il nervo vago. Gli studi hanno anche mostrato un aumento dell’abbondanza di alcuni batteri nel microbiota delle persone affette da morbo di Parkinson, mentre la quantità di altri batteri era ridotta.

La disbiosi può aumentare la permeabilità intestinale e facilitare il passaggio delle endotossine dall’intestino al sangue e al cervello dove si verificherebbe una risposta infiammatoria. L’infiammazione sistemica e cerebrale esacerba l’aggregazione dell’alfa-sinucleina e la perdita neuronale.

Allo stesso tempo, è stato dimostrato che i paesi europei in cui la prevalenza della malattia di Parkinson è aumentata in modo significativo negli ultimi cinquant’anni hanno consumato almeno 6 volte più antibiotici ad ampio spettro rispetto ai paesi che hanno sperimentato una riduzione di questa prevalenza di questa malattia nello stesso periodo. Ciò apre la strada interessante, ma poco esplorata, di un legame tra l’assunzione di antimicrobici e l’insorgenza della malattia di Parkinson.

Un nuovo studio è stato appena pubblicato sull’argomento. Si tratta di uno studio caso-controllo annidato condotto nel Regno Unito, utilizzando i registri del NHS (Sistema Sanitario Nazionale). Gli autori hanno confrontato i dati di oltre 12.000 persone affette da malattia di Parkinson con quelli di 80.000 controlli. L’obiettivo era analizzare se l’assunzione di antimicrobici potesse avere un legame con il rischio di Parkinson. L’esposizione agli antimicrobici potrebbe essersi verificata tra 1 e 15 anni prima dell’insorgenza della malattia.

La sorpresa arriva dagli antifungini

I risultati sono inattesi e contrastano con quelli precedenti. I dati suggeriscono infatti una relazione inversa e significativa tra il numero di trattamenti con penicillina e il rischio di malattia di Parkinson, indipendentemente dal tempo trascorso dall’assunzione dell’antibiotico. Ad esempio, più di 5 trattamenti negli ultimi 1-5 anni riducono il rischio del 15%, tra 6 e 10 anni del 16%, tra 11-15 anni del 13%.

Anche la relazione è inversa ma non significativa tra il numero di trattamenti con macrolidi o cefalosporine e l’insorgenza della malattia. Non è stato possibile calcolare la relazione tra l’assunzione di tetracicline, lincosamide o imidazolo.

D’altra parte, più di 2 trattamenti antifungini prescritti entro 1-5 anni sono associati ad un aumento del 16% del rischio di malattia di Parkinson (OR 1,16; IC 95% da 1,06 a 1,27). Questo risultato evidenzia il potenziale ruolo del micobioma intestinale nella malattia di Parkinson. Uno studio caso-controllo focalizzato sul micobioma di pazienti con malattia di Parkinson ha evidenziato differenze con quello dei pazienti non affetti, e in particolare designa Torulaspora delbrueckiilievito molto comune.

Gli autori, tuttavia, moderano questa osservazione: dato il lungo periodo di latenza che precede l’esordio della malattia di Parkinson, l’assenza di un’associazione a lungo termine (> 10 anni) lascia la possibilità che l’esposizione agli antifungini sia un marcatore, non un fattore scatenante per futuri malattia. Un caso da seguire…

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