La seconda vittoria di Trump è molto diversa dalla prima. Il 2024 non è il 2016, e non a causa della grandezza trionfale che separa le due date in otto anni. Il nuovo Trump è maturato: socio-elettoralmente innanzitutto, seguendo una curva di progressione che non è mai stata smentita, anche durante la sconfitta del 2020.
Questa dinamica è stata costruita sui fallimenti del neoprogressismo, un’ideologia delle circostanze che combina fantasia decostruttiva con irenismo globalizzante, ma le cui contraddizioni alla fine minano la coesione sia sociale che politica. I democratici americani che sostenevano la signora Harris combinavano un progressismo “vecchia scuola”, filo-occidentale, erede di una tradizione liberale, con una sinistra il cui lavoro, la teoria del genere e l’esaltazione delle minoranze hanno alimentato il software. Era come se in Francia avessimo unito le forze tra macronismo e melenchonismo per spingere per una candidatura comune alle elezioni presidenziali. È proprio questa combinazione esplicita negli Stati Uniti che Donald Trump ha sconfitto in maniera incontestabile, stabilendo da parte sua un’altra alleanza che mai prima aveva tracciato con tanta chiarezza.
Il rafforzamento di Musk ha di fatto completato questo sostegno ideologico del trumpismo: al populismo dei suoi esordi si è innestata una rivendicazione libertaria assunta contro un gran numero di ingiunzioni, sia normative che sociali, portate avanti indiscriminatamente da tutti coloro che si dichiarano nel campo del progresso. L’ex ministro degli Esteri, Hubert Védrine, non aveva torto nell’osservare che era proprio a questo “progressismo” postmoderno che il trumpismo aveva messo spettacolarmente un freno. Da questo punto di vista, le elezioni del 2024 potrebbero essere la prima tappa di una nuova ondata populo-libertaria di cui il duo Trump/Musk incarna in qualche modo la genesi, lo slancio e l’identità.
Nella guerra culturale intrapresa dalle minoranze post-nazionali e neo-progressiste, alla quale hanno in parte aderito molte delle oligarchie dominanti in Occidente, il trumpismo di seconda generazione offre un contromodello in cui molte correnti possono potenzialmente riconoscersi. che in Europa stanno affrontando la stessa battaglia. Il retroterra ideologico dell’Unione Europea è intriso di questo sapore neo-progressista con una finalità messianica, il cui scopo è quello di contribuire all’emergere di un cittadino-consumatore, “uomo senza qualità” per usare il titolo omonimo del grande romanziere austriaco Musil, sradicato, destrutturato, un atomo senza altra consistenza se non quella che lo lega ad un ordinamento esclusivamente giuridico fatto di diritti individuali e ipertutela delle minoranze decostruttive del patrimonio storico delle società europee .
Il rifiuto delle visioni prometeiche delle élite
Donald Trump, con l’energia dispiegata e il successo che è riuscito a costruire contro il mainstream mediatico-intellettuale che mattina, mezzogiorno e sera lo delegittimavano costantemente, ha aperto una breccia. In un momento in cui si è spesso cristallizzato senza dirlo una forma di crogiolo “intersezionale” che, pur rivendicato dall’estrema sinistra, finisce tuttavia per imporre la sua agenda e la sua doxa fino alle sponde del centro-progressismo, l’elezione di Donald Trump ci ricorda che la politica si costruisce innanzitutto sull’incontro di fatti e persone: i fatti sono espropri democratici e declassamento sociale che alimentano le preoccupanti questioni del giorno; le persone sono queste sociologie di massa che, dalle classi lavoratrici alle classi medie, non acconsentono più alle visioni prometeiche delle loro élite. È questo rifiuto di cui il trumpismo è il nome e di cui il vecchio continente è anche la sindrome crescente, in Francia e altrove…
Il resto dopo questo annuncio
*Arnaud Benedetti è professore associato alla Sorbona e autore di “Alle porte del potere – RN, la vittoria inevitabile? » (Michel Lafon).
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