Otto anni prima dell’attacco Charlie Hebdopresso l’Alta Corte di Parigi si è svolto un processo emblematico: quello intentato da associazioni musulmane contro il settimanale satirico, che aveva pubblicato le caricature di Maometto – pubblicate inizialmente sul quotidiano danese Jyllands-Posten. Tra le personalità chiamate a testimoniare in difesa dell’ Charlie inclusa Elisabeth Badinter. Per L’Express, il filosofo torna su questo processo (vinto dal giornale) e fa un bilancio preoccupante.
L’Express: Come è finito a testimoniare a favore di Charlie Hebdo al cosiddetto processo sulle “caricature” nel 2007?
Elisabetta Badinter: E’ molto semplice. Ho ricevuto una telefonata da un giovane avvocato, che non conoscevo personalmente: Richard Malka. Stava per difendere Charlie Hebdo con Georges Kiejman. Ho detto subito sì alla sua proposta. Avevo la sensazione che fosse in gioco qualcosa di fondamentale. Forse quando sei uno specialista del Settecento guardi con occhio attento tutto ciò che riguarda la libertà di espressione… La mia intima convinzione era che se Charlie fosse stato condannato per queste caricature, sarebbe stato un incredibile passo indietro rispetto alla nostra storia, a Voltaire, alla sua opera sul sacrilegio ecc. Ho visto nella stampa che aveva pubblicato queste caricature l’ultimo baluardo della mia libertà. L’ho detto alla sbarra: se il tribunale si pronunciasse a favore degli accusatori Charlieallora il silenzio sarebbe imposto dalla paura. E il silenzio mal si sposa con la democrazia. Soprattutto, non dobbiamo mettere il dito in questo processo mortale.
LEGGI ANCHE: “Come una vibrazione nel corpo, costantemente”: dieci anni dopo Charlie, i tristi risultati
Questa testimonianza è stata un momento importante per te?
SÌ. Ho testimoniato il primo giorno. Devo aver parlato cinque o dieci minuti: l’idea non era quella di fare un corso su Voltaire e il Cavaliere de La Barre (ride). Ho parlato poco, ma ricordo un momento grave, perché ho sentito davvero il pericolo per la nostra democrazia. Quando ho smesso di parlare, l’altra parte non mi ha fatto alcuna domanda. Il maestro Szpiner si avvicinò, poi si arrese. Lasciando l’aula, ho raccontato alle telecamere quanto fossero coraggiosi i fumettisti e i giornalisti di Charlie, e che “Dio sa cosa potrebbe accadere loro”. Già temevamo per loro.
Qual era allora la tendenza delle opinioni? Era più pro o contro? Charlie ?
Soprattutto all’estero le reazioni e i giudizi furono estremamente violenti. Lo scandalo era internazionale. Ciò che mi preoccupava molto era che, sotto la pressione e l’influenza di culture che non erano le nostre, di modi di vedere che non erano i nostri, alcuni, alla fine, pensavano di ritornare al divieto della blasfemia come nel XVIII secolo. Intorno a me – e anche se, conoscendomi, la gente prendeva precauzioni oratorie – sentivo che il ragionamento prendeva il “non bisogna offendere”, “è grave insultare le religioni”, “perché provocare?”, ecc. Queste persone pensavano e pensano ancora di essere nel campo del progresso. Eppure, storicamente e filosoficamente, sostengono la grande regressione.
LEGGI ANCHE: François Molins: “La reazione a Charlie Hebdo è stata l’ultimo momento di armonia nazionale”
Charlie ha vinto la causa. Da allora sono trascorsi diciotto anni, durante i quali la Francia è stata devastata dagli attacchi islamici, decimando la redazione del settimanale satirico. Diresti oggi che ti senti meno solo o più solo su questi temi rispetto a allora?
Penso che la paura abbia vinto. La paura, innanzitutto, di ciò che può costare fisicamente, per la vita, quando si parla di questi argomenti, e penso ovviamente alla morte di Charlie ma anche a Samuel Paty, decapitato dopo aver lasciato il college. I social network svolgono un ruolo dannoso, perché ora sappiamo come può formarsi e crescere un “brutto passaparola” fino a raggiungere il telefono di un candidato alla jihad. Le nostre notizie sono costellate di casi come quello del preside del liceo Maurice Ravel, a Parigi, minacciato di morte dopo aver chiesto a una studentessa di togliersi il velo all’interno dei locali dell’istituto. Questi casi non possono che confermare la paura della maggioranza di parlare apertamente. A ciò si aggiunge un’altra paura: quella di essere additati come appartenenti al “campo dei cattivi”; essere definiti razzisti, islamofobi, ecc. Quindi sono ancora pochissime le persone che parlano. Tranne, ovviamente, nel segreto delle conversazioni con familiari o amici. Questa dicotomia totale tra conversazione pubblica e discorso privato non è un segno di salute democratica.
.
-