“La mia immaginazione”, scrisse una volta David Lodge, “sembra attratta da strutture binarie che mettono in contatto e in conflitto ambienti, culture e personaggi contrastanti”. Si riferiva specificamente alla genesi del suo “romanzo rivoluzionario”, Changing Places, che trovava tanta comicità – ampia e sottile, obliqua e divertente – nel contrasto tra lo stile di vita accademico britannico e quello americano. Ma le parole potrebbero applicarsi a tutto il suo lavoro, e aiutano a spiegare perché eccelleva in una modalità di commedia tipicamente britannica che gli valse devoti fan non solo nel suo paese ma in tutti gli Stati Uniti e nell’Europa continentale.
Changing Places è stato pubblicato nel momento culminante del romanzo comico maschile britannico del dopoguerra. Le onde inviate da Lucky Jim 20 anni prima si potevano ancora sentire, i romanzi di Evelyn Waugh erano un ricordo recente, Wodehouse era appena morto, Tom Sharpe e Malcolm Bradbury (il caro amico di Lodge) erano in cima alle classifiche dei bestseller. All’arido senso del ridicolo condiviso da questi scrittori, Lodge aggiunse i suoi sentimenti leggermente logori di angoscia spirituale come “cattolico agnostico” e un approccio flessibile alla tecnica letteraria che derivava dalla sua ammirazione per i grandi modernisti. Uno dei motivi per cui Changing Places sembra ancora così fresco è il modo in cui salta così abilmente tra i modi letterari, dalle lettere ai testi trovati, dalla narrazione in terza persona alla sceneggiatura di un film: il lavoro di un uomo che aveva letto e digerito i suoi primi vent’anni. maestri del secolo.
In Nice Work, il suo terzo libro ambientato nella città immaginaria di Rummidge, Lodge trascese la satira sulla vita universitaria per produrre uno dei primi e più penetranti romanzi sull’impatto del thatcherismo sull’industria britannica. Ma del resto il suo sguardo era sempre stato realmente centrato, non sugli angusti confini del mondo accademico, ma sulle complesse realtà delle relazioni umane e sociali. C’era sempre un calore e una saggezza ironica nelle sue caratterizzazioni, che erano ricambiate nell’affetto che conquistava dai suoi lettori. Ne sono stato testimone io stesso, soprattutto nelle occasioni in cui ho avuto la fortuna di comparire con lui ai festival letterari francesi e tedeschi, dove di solito era l’ospite d’onore e attirava sempre un pubblico più numeroso di qualsiasi altro scrittore britannico.
Fondamentalmente era una persona molto seria – con sorpresa occasionale di coloro che si aspettano che gli scrittori di fumetti si presentino con il naso rosso e un papillon girevole. Questa serietà emerge con maggiore forza nel suo romanzo Deaf Sentence del 2008: un libro estremamente divertente in molti sensi, ma che non si esaurisce con l’atteso set comico. Troviamo invece un capitolo cupo che riguarda la visita ad Auschwitz, intrapresa da un eroe che riflette: “Non credo di essermi mai sentito così pessimista riguardo al futuro della razza umana”. Dopo di ciò ci fu solo un grande romanzo, quasi come se Lodge avesse perso la fiducia nel potere consolatorio dell’umorismo.
È in gran parte grazie a lui, tuttavia, se il romanzo comico britannico conserva così buona salute, sia nei lavori di Nina Stibbe, Nicola Barker o Nussaibah Younis. Ciò che questi scrittori, e lo stesso Lodge, sembrano avere in comune potrebbe essere riassunto in un verso del grande romanzo anti-poliziesco di Friedrich Dürrenmatt La promessa: la consapevolezza che “l’unico modo per costruirci una casa ragionevolmente confortevole su questa Terra è includere umilmente l’assurdo nei nostri calcoli”. Fu proprio questo occhio per l’assurdo a rendere Lodge non solo uno dei più divertenti ma, cosa ancora più importante, uno dei più veritieri tra i romanzieri britannici del dopoguerra.