Con questo probabile ultimo film, Clint Eastwood si chiude nel miglior modo possibile offrendoci una visione del mondo nitida e ricca di sfumature. Una concezione morale ma mai moralizzante della responsabilità, che troverebbe il suo posto nei manuali di tossicodipendenza.
Precisiamo fin dall'inizio che è da questo punto di vista tossicodipendente che l'opera finale di Clint Eastwood si è rivelata interessante e poi gradualmente entusiasmante. Andiamo oltre la qualità del film, la sua sceneggiatura serrata, la sua arte di non voler mai superare il lignaggio in cui si inserisce, pur rimanendo perfettamente al livello dello status di grande classico a cui aspira chiaramente. Non è né un film testamentario né una provocazione finale, ma solo un'opera che si accontenta della forza silenziosa che gli infonde l'artigiano novantenne dalle idee chiare e dalla visione globale.
È quasi gratificante vedere la facilità con cui Eastwood si libera dell'ingombrante eredità che potrebbe costituirne Dodici uomini arrabbiati di Sidney Lumet, facendo precipitare il nostro eroe dal cuore puro nel cuore di una giuria detestabile, archetipo di una società corrotta da pregiudizi e scorciatoie semplicistiche, la cui presunta efficacia viene posta come alibi per l'arbitrarietà postmoderna. Come se il regista volesse mostrarci che, in questa storia di un processo capovolto, la posta in gioco è altrove rispetto al primo grado del romanzo poliziesco su cui si basa. La questione si sposta su due personaggi: innanzitutto, il giurato in questione, Mr. Everyman – come potrebbe interpretarlo Henry Fonda – al quale sono stati aggiunti difetti sufficientemente importanti da renderlo ancora più emblematico della mascolinità attuale; poi, più sottilmente, un personaggio che porta un simbolo sul quale ritorneremo più avanti.
“Ci piace sognare che la politica, la giustizia ma anche la medicina siano ispirate come questo cinema. Quello che amiamo»
La cosa fantastica di Eastwood, che non ha mai nascosto il fatto di essere un grande reazionario nella vita, è vedere fino a che punto il suo cinema trascende il binario che sembra rivendicare. Lo sta prendendo deliberatamente nel modo sbagliato o è un movimento che va oltre le sue capacità? Eppure, ancora una volta, è nelle sfumature dell'animo umano che risiede il potere del suo film, un potere metaforico espresso in due fasi. Il momento in cui Justin si rende conto di aver probabilmente investito accidentalmente questa giovane donna nel buio di una notte piovosa simboleggia quello della scelta decisiva. Tuttavia, Justin è un alcolizzato sobrio. Questa scelta che si trova di fronte ne segue altre che, nel loro insieme, lo hanno portato a non poter più fuggire. Queste decisioni apparentemente insignificanti, se bere un ultimo drink o meno, dire a tua moglie quale strada hai preso o meno, con il rischio di essere confuso, e che portano a una sempre maggiore dissimulazione, allontanamento dal sé ideale. Questa scelta di assumersi la responsabilità del suo atto, Justin la sfugge in più occasioni, aiutato dal caso o dalla complicità. Ed è perché mantiene su di sé uno sguardo terribilmente umano, permettendo a tutti di identificarsi, che Eastwood riesce così bene a estrarre e raccontare la tragedia della sua condizione, quella di un uomo che credeva di essere uscito dalla sua dipendenza ma non ha raggiunto il stadio ultimo di questa liberazione: quello della responsabilità, stretto tra le due insidie dell’eccessivo senso di colpa e della negazione.
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Proprio con questo passaggio dal conflitto di gruppo al dramma individuale, Eastwood sarebbe già riuscito nella sua scommessa. Ma, su questo intrigo intimo portato avanti da un Nicholas Hoult la cui gentilezza si aggiunge alla sua dimensione toccante, il vecchio saggio ha l'intelligenza di innestare una seconda traiettoria, quella di un ambizioso pubblico ministero che, gradualmente, si separa dal suo talento politico per riconnettersi con la tua passione per la verità e la giustizia. Pubblico ministero che finirà per incontrare pienamente questo giurato di cui solo lei poteva dedurre la colpevolezza, a condizione che fosse disposto a vederla. È un Toni Collette sorprendentemente autentico a incarnare questo simbolo della Legge che, se applicata con correttezza, spesso costituisce l'ultima leva terapeutica possibile. In questi tempi di cronaca ridotta a una dimensione sensazionalistica e populista, ci piace sognare che la politica, la giustizia ma anche la medicina siano ispirate come questo cinema. Quello che amiamo.