In “Trois amis”, il regista Emmanuel Mouret orchestra un giro romantico su una melodia funebre

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Da sinistra a destra: Rebecca (Sara Forestier), Alice (Camille Cottin) e Joan (India Hair) in “Trois amis”, di Emmanuel Mouret. DISTRIBUZIONE DELLA PIRAMIDE

L’OPINIONE DEL “MONDO” – DA NON PERDERE

La commedia è basata sul calcolo, è figlia dei numeri e delle combinazioni. Non è quindi un caso che l'ultimo lungometraggio di Emmanuel Mouret, amabile pittore di incoerenze romantiche, porti sul frontone il numero 3, segno di una struttura ternaria e di un ritmo sincopato. Ma, appunto, Tre amici È ancora in vena comica? Sembra che, per una volta (almeno dopo il tentativo di melodramma Un'altra vita, nel 2013), Mouret sembra cercare un'emozione più profonda, una nota più seria. Qui preferiremmo avere a che fare con una sorta di « recitare in un dramma »come diceva Jean Renoir Le regole del gioco (1939), o addirittura una suite musicale che oscillerebbe costantemente, al di là delle tonalità opposte, dal maggiore al minore. Dalla linea chiara dei suoi film precedenti, Mouret passa ora alla linea spezzata, con sentimenti contrastanti, dall'umorismo giocoso alla ciclotimia.

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Siamo a Lione. Joan (India Hair) e Alice (Camille Cottin) insegnano nella stessa scuola superiore. La prima, combattuta, soffre di mancanza di sentimento per il suo compagno, Victor (Vincent Macaigne), insegnante di francese, e si sente tenuta nei suoi confronti da una richiesta di onestà. La seconda, assume una coniugalità spassionata e professa di recitare in commedia in casa per proteggersi da tempeste romantiche troppo violente. Quanto alla terza, Rebecca (Sara Forestier), insegnante di arti visive in cerca di lavoro, che nel frattempo fa la guardia al museo, esce con “Mr Alice (Grégoire Ludig). La morte improvvisa di Victor in un incidente stradale, che lascia Joan inconsolabile, rimescolerà presto le carte, portando un nuovo arrivato sulla cattedra vacante, un uomo di nome Thomas (Damien Bonnard), uno scrittore di successo.

La morte fa così il suo ingresso, meno sconvolgente che sommesso, nel cinema di Emmanuel Mouret, che comincia a filmarla per la prima volta, a quasi trent'anni dal suo esordio. La storia è addirittura raccontata da questo luogo impossibile, poiché, per ironia della sorte, la voce fuori campo non è altro che quella del morto, che ci fa da staffetta, seguendo il modello canonico di Viale del Crepuscolo (1950), di Billy Wilder. Questa parte funebre non funge, per fortuna, da contropartita “morale” alla frivolezza del circolo amoroso: definisce piuttosto questa distanza metaforica che ci permette di guardare con tenerezza i personaggi, designando al tempo stesso la caducità del desiderio, sospeso da cicli di estinzione e rinascita. Ciò corrisponde alla dolce pendenza autunnale di un film che trasporta i personaggi attraverso mezzitoni spezzati, giorni che svaniscono e notti profonde.

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