perché devi assolutamente vedere questo documentario sul miglior gruppo degli anni ’60

perché devi assolutamente vedere questo documentario sul miglior gruppo degli anni ’60
perché devi assolutamente vedere questo documentario sul miglior gruppo degli anni ’60
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Crediti fotografici: Disney+

Ancora poche persone lo riconoscono oggi, ma è ovvio: sì, i Beach Boys sono il più grande gruppo degli anni ’60, molto meglio dei loro concorrenti inglesi, i Beatles, i Rolling Stones o anche i Kinks. Il genio melodico di Brian Wilson, le armonie vocali e la schiera di successi cult hanno contribuito a fare del gruppo americano uno dei miti del pop anglosassone del XX secolo. Tuttavia, ancora oggi, molti riducono questi beach boys al ruolo di semplici cantanti pop che parlano di surf, ragazze e automobili. Questo è ciò che il documentario “The Beach Boys”, disponibile su Disney+ e montato attorno ai membri del gruppo, tenta di invalidare. Se Carl e Dennis Wilson non sono più qui per raccontare la storia e Brian Wilson, il genio creativo, ha preso le distanze (sono presenti tramite gli archivi), sono Mike Love, il loro cugino, e Al Jardine, il loro amico, a prendere il comando posto dei guardiani del tempio.

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Pregiudizi sorprendenti

Della durata di due ore (troppo poco!), “The Beach Boys” racconta principalmente i primi 15 anni di carriera del gruppo californiano, che in così poco tempo ha messo a segno una serie impressionante di classici. “Surfin’ USA”, “Fun, Fun, Fun”, “I Get Around”, “California Girls”, “Little Deuce Coupe”, “Surfer Girl”, “Good Vibrations” o “Don’t Worry Baby” risuonano tutti durante le due ore del film diretto da Frank Marshall e Thom Zimny ​​e che è pieno di sorprese. Se si passa un po’ in fretta ai primi anni e allo strepitoso successo ottenuto dai Beach Boys tra il 1962 e il 1966, il documentario sottolinea in particolare la crescente concorrenza tra la band di Brian Wilson e quella di Paul McCartney. Infatti, fu proprio mentre i Beach Boys erano in tournée in Australia che i Beatles si presentarono all’Ed Sullivan Show nel febbraio 1964 e provocarono un vero e proprio maremoto. Inizia la guerra musicale tra americani e inglesi, ognuno dei quali cerca di superare l’altro nella speranza di creare l’album perfetto. Una competizione all’insegna del rispetto e dell’ammirazione reciproca tra i due gruppi, che si è conclusa con la vittoria per KO dei Beach Boys con “Pet Sounds”.

Pubblicato nel 1966, questo disco contrasta con l’immagine “surf” della band e colpisce per la sua complessità musicale. Rivoluzionario, l’album caratterizzato dai capolavori “Would’t It Be Nice”, “Sloop John B” e “God Only Knows” si rivelò tuttavia un fallimento al momento della sua uscita negli Stati Uniti. Il documentario è quindi ricco di immagini d’archivio per portarci al cuore della registrazione di quello che è unanimemente considerato oggi come uno dei più grandi dischi di tutti i tempi. E ricorda come Brian Wilson sia uno dei più grandi geni musicali del XX secolo, il cui obiettivo era rivaleggiare con le leggendarie produzioni di Phil Spector. È quindi piuttosto divertente vedere la loro storica etichetta Capitol che, presa dal panico per la mancanza di potenziale commerciale di “Pet Sounds”, decide di pubblicare subito un best-of per promuoverlo, a scapito delle nuove canzoni innovative di Brian Wilson.

Una famiglia d’oro

Lungi dall’essere totalmente agiografico, il documentario evoca i numerosi problemi di salute mentale di Brian Wilson, i ripetuti fallimenti, la maledetta collaborazione con Charles Manson (la canzone “Never Learn Not to Love”, riscrittura di un testo del celebre criminale americano), ma anche il rapporto teso tra i fratelli Wilson e il padre Murry, un manager tirannico che finì per vendere il catalogo del gruppo senza il loro consenso per 700.000 dollari, anche se ne valeva la pena” centinaia di milioni “. Altri argomenti invece, come i numerosi litigi familiari o la finalizzazione dell’album cult “Smile”, passano sotto silenzio. Ma per il nostro più grande piacere, il documentario fa luce anche sugli anni ’70 dei Beach Boys, un decennio spesso dimenticato, ma attraversato da alcune affascinanti esplosioni musicali negli album “Holland” o “Surf’s Up”, fallimenti al momento della loro uscita ma poi ri- valutato, vedendo la band provare suoni più progressivi o psichedelici.

Se l’affascinante carriera dei Beach Boys non può essere raccontata esaurientemente in due ore, è deplorevole che il documentario Disney+ si concluda bruscamente dopo l’uscita di “Endless Summer”, un best-of pubblicato nel 1974 dalla Capitol Records all’insaputa di il gruppo, per surfare l’immenso successo del film “American Graffiti”. “ L’immagine da cui cercavamo di scappare ci ha salvato » giudica ironicamente Mike Love di fronte all’enorme successo a sorpresa di questa compilation, che contribuisce a rilanciare la carriera del gruppo… di cui quindi non seguiamo gli ultimi 45 anni di carriera rimanente! Il gigantesco concerto tenuto nel 1985 davanti a 750.000 persone a Washington viene trasmesso solo negli ultimi minuti, così come il tubo “Kokomo”, un successo inaspettato del 1988, mai menzionato altrove nel documentario, mentre la morte di Dennis e Carl Wilson nel 1983 e nel 1998 vengono semplicemente indicati tramite una tessera “In Memoriam”.

Scelte sorprendenti ma purtroppo inevitabili per racchiudere in due ore l’affascinante storia di un gruppo che, a 60 anni dai primi successi, continua ad affascinare generazioni di musicisti, come testimoniano le interviste a Ryan Tedder e Janelle Monaé. Con un senso di messa in scena americana, il documentario si conclude con l’immagine commovente dei membri del gruppo che ritrovano un Brian Wilson fisicamente indebolito sulla spiaggia di Paradise Cove, dove è stata fotografata la leggendaria copertina del loro primo album “Surfin’ Safari”. Un modo tenero per chiudere il cerchio.

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