L’editoriale del Dopo: Labrune, delegato allo schianto

L’editoriale del Dopo: Labrune, delegato allo schianto
L’editoriale del Dopo: Labrune, delegato allo schianto
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Le audizioni dei leader francesi al Senato hanno gettato una nuova luce sulla natura delle loro motivazioni. Al centro dei dibattiti, Vincent Labrune, molto a disagio nel difendere un piano industriale assurdo. L’editoriale di Thibaud Leplat, caporedattore della rivista After.

È il temuto periodo dei consigli di classe. Per il delegato è delicato, è preso tra due fuochi. Da un lato le promesse per difendere al meglio i propri elettori: una cena di classe? Facile da organizzare (da McDonald’s), senza bisogno di confronto con gli insegnanti (a cui se ne frega finché non viene organizzato a casa). E poi le promesse vincolano solo chi ci crede. Nessun rischio di disconoscimento. Tutti pagano per il proprio BigMac. La rielezione non è in pericolo. D’altra parte, una strategia più sottile: adulare gli insegnanti e allo stesso tempo svendere i risultati. L’interesse è duplice: proteggere il futuro senza alienare la base. Ciò che conta non è vincere la causa (a chi importa, in fondo, su quale canale andrà in onda il calcio la prossima stagione?), ma fingere di contestare uno scenario di cui noi stessi siamo responsabili. Machiavelli al collegio Jacques-Chirac.

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Senza dubbio, è stata questa seconda strategia quella che Vincent Labrune, affiancato dal suo vice Arnaud Rouger – meno docile del solito – ha scelto durante l’udienza delle 2h42 davanti alla commissione d’inchiesta senatoriale incaricata di indagare più chiaramente sulla “finanziarizzazione del calcio”. Dietro gli occhiali appannati e i molteplici “ha ragione, signor senatore” che introducevano ciascuna delle sue risposte, si poteva intuire il sudore che il presidente della LFP aveva versato nelle sessioni di preparazione. Non capita tutti i giorni di dover rendere conto a persone che non hanno votato per te. La sua precedente apparizione nel 2022 davanti alla commissione cultura dell’istituzione non è rimasta negli annali dell’eloquenza. Questa volta l’adulatore aveva giurato a se stesso: sarebbe stato educato, rispettoso, docile di fronte alla “rappresentanza nazionale”. Problema, dietro l’ossequiosità si nasconde un fatto enorme: la sfiducia.

Un mucchio di persone ingrate

Non abbiamo dovuto aspettare molto (un’ora) prima di vedere i soliti sospiri, sopracciglia, cambi prematuri di capelli, il tutto punteggiato dalle imbronciate dubbiose di Rouger, quando Michel Savin si è preso la libertà di insistere sul piano dell’assurda vicenda che aveva è servito da strategia per il suo principale mandante e da sonnifero per chi l’aveva convalidato: 1 miliardo di euro all’anno per un campionato di second’ordine. Questa è la conclusione implacabile a cui il pubblico continuava a ritornare. Se possiamo immaginare uno scenario di ricavi in ​​calo (come ovunque), se possiamo ammettere che i vincoli del bando di gara devono essere rivisti, non abbiamo alcun dubbio in ogni momento che il prodotto fosse sopravvalutato. Consapevolmente? Questo è il grande tabù attorno al quale ruotano queste udienze. Tutto ciò non avrebbe avuto alcuna importanza se nel frattempo fosse stata trovata un’emittente televisiva che avesse versato la suddetta somma. Tuttavia, non solo non è così al momento della stesura di questo editoriale, ma i potenziali emittenti hanno cambiato idea o per mancanza di vantaggi evidenti (Amazon), o per sfiducia nei confronti degli interlocutori (Canal+), o infine per il semplice principio della realtà (DAZN).

Naturalmente, quando si è trattato di parlare dello stipendio e delle “gratificazioni” del presidente della LFP e del suo delegato, Labrune non ha mancato di sottolineare l'”accordo di denominazione eccezionale” con MacDonald’s o l’impresa di aver creato una società commerciale (di cui è anche presidente) in compagnia di una società lussemburghese e dalla quale sono stati accuratamente esclusi i principali delegati (i club). Su quale base misurare il valore del lavoro svolto? A livello aziendale, ovviamente. Dopotutto, 3 milioni di bonus, uno stipendio triplicato dal suo principale cliente (il 50% viene rifatturato a CVC che evidentemente non ne era a conoscenza), 37,5 milioni di euro di onorari legali (“a Parigi sono cari”), 1000 euro al giorno di spese (“gli piace mangiare bene” ride Kita nel pomeriggio), su un totale di 1,5 miliardi di fondi raccolti e 1 miliardo di fatturato annuo previsto, non sono cifre esose pagate. Sottinteso: dovresti ringraziarci invece di mandarci a confessare, branco di ingrati.

127 milioni per posto

Applaudiremmo a piene mani se si trattasse di una start-up di tendenza. Saremmo stati pronti anche a lavorare sull’accento californiano per colpire meglio gli yankee in patria con tanto di tecnologie “made in France”. Quando il denaro è privato, il mercato deve poter operare liberamente. Possiamo pentircene, accoglierlo, possiamo trovarne tanto, poco, non importa, l’economia è libera. Almeno per ora. No, quello che è più imbarazzante in questa vicenda – questo è il senso dell’intervento dei Senatori – è ricordare che l’organizzazione di un concorso rientra in una delega di servizio pubblico e che gli introiti da questa generati -questi non hanno esattamente la stessa status di vendita di hamburger.

A questo proposito, organizzare un business plan disinvolto, remunerare i gestori di un concorso sulla raccolta fondi (questo non è il cuore della loro professione) senza contratto radiotelevisivo (questo è il cuore della loro professione), sostenere spese (cambio di sede alla 127 milioni di euro) senza garantire entrate e in ultima analisi con riluttanza a rendere conto ai parlamentari, tutto ciò pone un evidente problema etico. Di fronte a Waldemar Kita e Louis Nicollin, Michel Savin ha riassunto in modo tagliente il disagio che circonda queste udienze “non abbiamo creato una società commerciale per finanziare banchieri, avvocati e membri della LFP”. In attesa del ritorno a scuola (e delle prossime elezioni).

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