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“Lo Stato di Israele non funziona come uno Stato normale”

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Professore di scienze politiche alla Open University of Israel, a Raanana (Israele), scrive Denis Charbit Israele e i suoi paradossi (Le Cavalier bleu, 2015) e lo ha appena pubblicato Israele, lo stato normale impossibile (Calmann Lévy, 300 pag., 19,90 €).

Il tuo nuovo libro non solo dipinge un ritratto critico di uno Stato senza Costituzione, senza cittadinanza e in parte privo di confini definiti, ma specifica anche che nessuno di questi punti, a quasi ottant’anni dalla nascita di Israele, è in procinto di essere risolto. Per quello ?

Tutti possono fare questa osservazione: lo Stato di Israele non funziona come uno Stato normale. Ma prima di esaminare ciò che questa anomalia deve al conflitto [israélo-palestinien] – un conflitto a lungo termine, appassionato, spinto oggi agli estremi, compresa la retorica (“stato paria”, “apartheid”) –, e invece di considerare questo conflitto per l’esclusiva ragione di questa anormalità, intendo esaminare ciò che noi, i Gli israeliani ci hanno aiutato, per settantasei anni, a svolgere la nostra parte di responsabilità. È un atteggiamento, diciamo scientifico, che consiste nell’esaminare ciò che abbiamo prodotto, appunto, in termini di Costituzione, potere religioso e nazionalità/cittadinanza.

Anticipate critiche alla parola “normalità”?

In francese, infatti, può avere connotazioni molto forti, come dimostra il significato che l’espressione “normalizzazione” ha assunto nel corso della storia. Dico “normalità” non nel senso di “normale”, ma di “norma”. Uno stato democratico è definito da alcune norme da cui ci discostiamo in Israele – probabilmente a causa del conflitto, ma anche perché abbiamo preso determinate decisioni che non intendiamo cambiare.

Accanto a questa ipotesi scientifica, invece di corroborare quello che nel gergo delle scienze sociali chiamiamo buon senso – dateci la pace e rispetteremo le norme – avanzo un punto di vista morale ed etico. Riguarda la dimensione personale di questa storia, il modo in cui definisco l’indipendenza. Non è “faccio quello che voglio”, è solo dovuto alle colpe e agli errori che commettiamo a noi stessi. Ciò che facciamo include la Nakba [l’exode des Palestiniens, en 1948, lors de la première guerre israélo-arabe, qui ont été ensuite interdits de rentrer dans le territoire devenu l’Etat hébreu]come la guerra che viene combattuta oggi a Gaza.

Leggi anche | Articolo riservato ai nostri abbonati Denis Charbit, politologo israeliano: “La punta di diamante di una guerra totale è l’islamismo radicale e l’ebraismo radicale”

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Lascio ovviamente libertà al lettore, ma il filo conduttore di questo libro è che non bisogna coniugare le decisioni che prendiamo con il lusso di dire che, in un certo modo, ci è stato imposto. Sono troppo attaccato alla libertà individuale per pensare che tutto dipenda dalle pressioni esercitate su di noi. Questo non è un buon modo per arrivare alla verità, che dopo tutto è l’obiettivo di tutti noi.

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