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Ricordi sullo schermo – sugli spettatori! di Arnaud Desplechin – AOC media

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Memorie sullo schermo – accese Spettatori! di Arnaud Desplechin

Di Joachim Lessier

In Spettatori!Arnaud Desplechin intreccia la sua storia personale e la storia del cinema. Oscillando tra conferenze e confessioni, il film assume l’aspetto di un curioso ed emozionante film labirintico in prima persona, più modesto e amabile rispetto alle precedenti opere del cineasta.

Da Spettatori! è un film in prima persona, iniziamo la sua recensione in prima persona. Personalmente è da un po’ che il cinema di Arnaud Desplechin non mi interessa più. Tra autofiction non del tutto accettata, “romanticismo” saturo di effetti di scrittura e rimaneggiamenti psicodrammatici d’altri tempi, il suo universo ha finito per assumere l’aspetto di un piccolo teatro compiaciuto e sempre più distaccato dal mondo. Fratello (2022) aveva addirittura segnato un punto di non ritorno. Tanto che mi sono chiesto se un film del genere non fosse stato fatto per uscire arrabbiati dalla sala, maledicendo un approccio borghese e teatrale al cinema – che non sarebbe stato fuori posto nell’odiata qualità francese degli anni Cinquanta – solo un’accoglienza critica incredibilmente indulgente.

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Per una volta, questa rabbia era desplechiniana. Sia i film belli che quelli brutti ci raggiungono, ci formano e ci distorcono. È proprio questo il punto Spettatori! E che tu sia un fan del cinema di Desplechin o meno, è sempre interessante vederlo ritornare alla formazione del suo gusto, preambolo ai fondamenti della sua pratica. Senza conoscerlo, possiamo addirittura scommettere che vorrebbe deviare il famoso aforisma di Bill Shankly sul calcio verso il cinema: “Alcune persone pensano che il cinema sia una questione di vita o di morte. Questo atteggiamento mi delude. Posso assicurarti che è molto più importante di così. »

Spettatori! segna quindi una pacifica riunione con Desplechin. Il film appare più umile e gentile del solito, dichiaratamente minore ma riconciliante. Un film che cerca la sua forma davanti ai nostri occhi, costituendo uno strano e singolare film-saggio, un codicillo cinefilo alla Tre ricordi della mia giovinezza (2015). Fatto sorprendente: mentre Desplechin sembrava più un cineasta dell’eccesso, questo film a volte lascia desiderare di più, nonostante la sua abbondanza. Avremmo voluto estendere, qua e là, questa meta miscellanea, ricca di scene adolescenziali intrise del fascino lo-fi dell’iconica collezione Tutti i ragazzi e le ragazze della loro età (Arte, 1994).

Questo mosaico, tanto stimolante quanto confuso, esagera con la propria frammentazione. Dodici capitoli, quattro interpreti del suo alter ego Paul Dédalus, un filo autobiografico intrecciato con estratti di film che ripercorrono un secolo di cinema (dai Lumière agli anni Novanta), oltre a sequenze documentaristiche che cambiano spesso direzione, navigando tra audiovisivi museali, on- testimonianze alle telecamere di spettatori di tutte le età, mini-presentazioni teoriche (in particolare un bell’omaggio ai “tre schemi spettatoriali, teatro, cinema e televisione”, di Pascal il corso di Kané al Censier, negli anni ’80), dialoghi con critici amichevoli o un’indagine commemorativa sulle orme di Claude Lanzmann. Il tutto in una durata piuttosto compatta di ottantotto minuti, tanto che questa somma dà l’impressione di un labirinto sgretolato dove ogni sequenza finisce per valere di per sé. Non importa che i pezzi del puzzle alla fine appaiano piuttosto sconnessi l’uno dall’altro, ognuno di essi è sufficientemente significativo.

L’approccio rientra in una tradizione molto francese, tra la celebrazione dei “film di [s]una vita” di Truffaut, Storia(i) del cinema di Godard e l’introspezione del “figlio del cinema” Serge Daney. Una sponsorizzazione tripla e ambiziosa, per non dire travolgente, in qualche modo evocata da una forma volutamente imperfetta. Ciò che Desplechin propone è solo una variazione di un sottogenere estremamente raro, inventato dal comune maestro di Godard e Truffaut: il “film conferenza” alla Sacha Guitry. Parliamo di noi stessi assumendo un tono, a volte, al limite dell’enfasi. Parliamo del suo viaggio attraverso le opere che ci hanno accompagnato. Il tutto al ritmo di una sfilata di riferimenti ed eminenze.

Così, nel primo capitolo, Dominique Païni ripropone una visita esplicita alla sua mostra “Finalmente il cinema! » (Musée d’Orsay, Parigi, autunno-inverno 2021) e ricerca nella pittura di fine Ottocento i motivi che preparano l’arrivo del cinema (catturare il tempo, il movimento e persino la sorpresa). Una mostra che Desplechin ha definito “il miglior film francese dell’anno”. Più tardi, in una scena casuale un po’ forzata, un gruppo di studenti al bar sarà sorpreso di scoprire Sandra Laugier come compagna di posto che li aiuterà a rivedere il loro Stanley Cavell.

Il risveglio al cinema (e al modo di pensarlo) riunisce un’educazione estetica, filosofica o sentimentale, ma un’educazione alla perpetua incompletezza. La cronologia del film è comunque chiara. Dalla sua prima sessione movimentata (a Fantomas con la nonna e la sorella, che saranno così spaventate dal film che dovranno andarsene prima della fine) all’epifania prima I Quattrocento Colpiche dà al quasi trentenne Dédalus la certezza di “aver centrato abbastanza gli angoli del film” per poter passare alla regia, il percorso sembra chiaro. Andiamo al cinema solo per uscire meglio. Vediamo i film solo per poterli poi realizzare un giorno. Questa progressione sembra corroborata anche dalle pietre miliari delle sessioni fondative (la prima fuga per vedere il suo primo Bergman; il cineforum del liceo favorevole alle connessioni romantiche) e, in modo ancora più fondamentale, dalla visione di Shoah nel 1985, conferendo a tutti i suoi spettatori uno status più attivo, quello di testimoni della Storia.

Guardare è un’azione, un movimento sensibile. Da quale momento guardare significa anche proiettare e schermare?

Ma questa evoluzione – spettatore, testimone, regista – ha costantemente bisogno di essere rifornita di ritorni in sala.

La stanza raccontata come luogo intimo e collettivo, sensoriale e cerebrale, luogo tanto di formazione quanto di trasmissione e trasgressione. Se continuiamo a ritornarci è perché sembra nascondere un segreto, qualcosa tra l’incoraggiamento offerto dai film e una fiaccola nascosta che cerchiamo coraggiosamente di conquistare. Formalmente questa idea si traduce in una leggera iridescenza dell’immagine, un bagliore ovattato ma costantemente presente, che scuote visivamente questi ricordi. Firma visiva, a volte al limite del kitsch, presente fin dalla prima immagine del film: un ragazzino sulla soglia di casa di famiglia, che guarda in un piccolo visore, poi abbagliato da una luce sconosciuta, più grande della gioia portata dal suo giocattolo. È questo il primo ricordo di Desplechin? Niente lo dice, ma non possiamo fare a meno di sospettarlo.

Questo ricordo ha tutto di un ricordo di copertura, un’immagine tenue e simbolica che racchiude alcune emozioni fondamentali. Potrebbe allora la ricerca di questo splendore, questo desiderio di gioiosa cecità essere il filo conduttore della sua esistenza, sia come cineasta che come spettatore?

Se Desplechin non smette mai di celebrare il teatro e il grande schermo, rivela anche un paradosso. Se ci chiudiamo in questa scatola nera è per trovare una luce segreta.

La prima volta che mette piede lì, il ragazzo non riesce a stare fermo. Guarda ovunque, in alto per cogliere il raggio del proiettore, dietro di sé come se ci fosse qualcosa da cercare negli angoli bui in fondo alla stanza. Guarda ovunque, ma quasi mai dove dovrebbe, verso lo schermo.

Tuttavia, questa schermata continuerà a tornare. Custodia per il volto di Liv Ullmann in Urla e sussurri (Bergman visto per la prima volta al cinema, a quattordici anni), volto planetario che fissa gli spettatori che appaiono minuscoli. Schermo dove i paesaggi di Viaggio alla fine dell’inferno del Cimino sversamento fuori limite. Troppo piccolo lo schermo del televisore di famiglia, ma che trasmette intatto il potere dello stupore di Hitchcock o di Dreyer. Gli schermi alla fine non sono mai abbastanza grandi per la portata delle emozioni che si manifestavano in quel momento.

Ma lo schermo continua a ritornare anche in modo simbolico. Con la sua forma di puzzle sconnesso, Spettatori! è in definitiva l’antitesi diStoria(i) del cinema. In Godard, le sovrapposizioni, le dissolvenze, le filigrane dell’immagine video lavorano su una porosità vertiginosa tra citazioni cinematografiche, visive, letterarie e storiche. Il significato emerge da un magma pittorico in perpetua metamorfosi. Niente di simile a Desplechin dove i bordi sono ben definiti, se non assolutamente stagni. Così facendo, lo schermo è la modellazione di un limite, fino a divenire un feticcio formale.

Prendiamo un esempio dal primo capitolo, che torna quindi al “cinema prima del cinema”. Dominique Païni presenta Il Giardino delle Tuileriesdipinto di Édouard Vuillard del 1895 (stesso anno della prima proiezione Lumière, quindi). Non solo una vista del parco parigino sotto la neve, ma nella sua metà inferiore, un bianco pastoso quasi monocromatico. Tela immacolata in attesa che arrivino le immagini? In fondo, alcune impronte danneggiano l’integrità del mantello invernale. Primi sguardi a questa vista? Primi spettatori dell’opera?

Su questa tela (forse sovrainterpretata, ma è proprio questo il fascino dell’esercizio), il montaggio collega un estratto di tempo dell’innocenza (Martin Scorsese, 1993), dove un campo lungo di Central Park nel 1870 (più pittoresco e ricco di comparse del dipinto di Vuillard) viene prima abitato da un’atmosfera ambulante prima di sfociare in uno scambio di sguardi affettuosi tra Daniel Day-Lewis e Michelle Pfeiffer . Il passaggio dalla tela al film, dalla contemplazione allo stato d’amore, sottolinea che lo stato dello spettatore non è passivo. Guardare è un’azione, un movimento sensibile. A che punto guardare diventa amare? Ma da quale momento guardare significa anche proiettare e schermare?

La questione si riproporrà più volte evocando brani in cui altri schermi diventano attori della messa in scena: telo sospeso che taglia in due una stanza (in New York-Miami) o pile di lenzuola che nascondono le nudità dell’affascinante coppia Hugh Grant e Julia Roberts (in Amore a prima vista Notting Hill). In quel momento lo sguardo dello spettatore cercherebbe di far cadere questi schermi sullo schermo? Quali immagini indicibili o desiderate vedrebbe invece? Attraverso questo gioco di suggestioni, lo schermo diventa una rete desiderante.

Se con questo film Desplechin si mette alla ricerca di un segreto del cinema costantemente da riconquistare, parte anche dal presupposto che per lui l’atto fondamentale della sua pratica non è tanto filmare quanto proiettare (in ogni senso del termine). Ma almeno lo fa con una passione gioiosa che riscatta le passioni tristi che avevano ingombrato i suoi ultimi film.

Spettatori! di Arnaud Desplechin, nelle sale dal 15 gennaio.

Gioacchino Lepastier

Critica

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