La prova del tempo – avanti Incendi selvaggi di Jia Zhangke
Di Corentin Le
Quasi senza dire una parola, una donna e un uomo si separano per poi incontrarsi di nuovo anni dopo. Film composto da immagini girate dal 2001 al 2022, Incendi selvaggi è indirettamente parte di un processo di ricerca vicino a quello dell’archeologia dei media, che cattura i cambiamenti in Cina attraverso l’evoluzione dei media digitali. La trama del mondo si evolve con i cambiamenti nella trama delle immagini.
All’inizio del XXI secolo, e grazie a una flessibilità di ripresa senza precedenti resa possibile dallo sviluppo delle fotocamere digitali, due grandi eventi sconvolsero il cinema d’autore cinese contemporaneo: la produzione, da parte di Wang Bing, dell’immenso affresco documentario A ovest dei binari e l’apparizione abbagliante, nel cinema emergente di Jia Zhangke, di un’attrice chiave, Zhao Tao, che avrebbe poi abitato la maggior parte dei suoi film, di Piattaforma (2000) Incendi selvaggi (2025) via Natura morta (2006) o addirittura Oltre le montagne (2015).
Come se si trattasse di contrastare l’attuale corsa a capofitto della Cina con un grande riavvolgimento, Incendi selvaggi è un film retrospettivo fatto di immagini girate dal 2001 al 2022, ma anche (e soprattutto) un oggetto profondamente ibrido e composito. Difficile, in un primo momento, identificare di cosa sia fatto Incendi selvaggi (titolo internazionale: Catturato dalle mareeletteralmente “Presi dalle maree”), se non un insieme di archivi intrecciati sulla città mineraria di Datong, da cui Jia Zhangke plasma una sinfonia urbana sulla scia di L’uomo con la macchina fotografica (1929) di Dziga Vertov, di cui rivendica l’ispirazione[1].
Inquadrature di folle riunite attorno a una sfilata di moda o a un concerto, carrellate laterali che riprendono gli spettatori sul ciglio della strada, panoramiche circolari al rallentatore nel mezzo di un’assemblea di giovani cinesi che ballano al ritmo della techno… Incendi selvaggi rivela nella sua prima parte (il film ne ha tre, divise da significative ellissi) un mondo ribollente e brulicante di vita, sul quale il cineasta avrebbe però gettato un velo nostalgico e malinconico, tormentato dalla mutazione economica della Cina contemporanea e dalle trasformazioni del un paesaggio in permanente ricomposizione.
Nonostante l’astrazione di un sciolto e a priori senza una direzione ovvia, troviamo qui le visioni e i temi preferiti di un cineasta divenuto, negli anni, uno dei più eminenti ritrattisti della devastante liberalizzazione del suo Paese. Da trent’anni Jia Zhangke continua a catturare la tristezza che invade le persone sopraffatte da immensi cantieri, tra gli sfollamenti di popolazione in seguito all’installazione della diga delle Tre Gole sul fiume Yangtze, la costruzione di giganteschi parchi di divertimento o la chiusura delle miniere nell’Hebei provincia.
Incendi selvaggi continua questo grande affresco che il cineasta dipinge sul suo Paese, ma ha la particolarità di apportare una leggera inflessione alle sue abitudini narrative. Il suo cinema, infatti, ha spesso oscillato tra un approccio documentaristico, caratterizzato da riprese molto ancorate dal punto di vista territoriale e geografico, e una dimensione romantica, con intrighi incentrati su personaggi dai destini drammatici o addirittura tragici. Il primo polo qui prende il sopravvento sul secondo, senza tuttavia abbandonarlo del tutto.
La trama del mondo filmato dal regista nell’arco di vent’anni si evolve con cambiamenti nella trama delle immagini stesse.
Tra le reti di una sinfonia urbana e poetica (con ad esempio una moltitudine di sovrapposizioni e collage di immagini eterogenee – panorami, ritratti, clip pubblicitari, persino videogiochi), emerge in tutto il montaggio una parvenza di melodramma vicina alle due ultime fiction di Jia Zhangke, anch’esso diviso in tre periodi, Oltre le montagne et Gli Eterni (2019). Senza dire una parola o quasi, una donna (Qiao) e un uomo (Bin) attraversano qui la scena per poi separarsi nel corso degli anni, prima di incontrarsi nuovamente anni dopo.
Si tratta di uno scheletro di melodramma, a prima vista minimalista, anche francamente stentato, ma che a poco a poco si rivela puro melodramma, nel primo senso del termine: un drammatico crepacuore esacerbato da brani musicali significativi. Jia Zhangke torna addirittura alle origini del genere emblematico del cinema muto girando scene avare di parole e battute, al punto da rendere il personaggio di Qiao, interpretato da Zhao Tao, una figura muta.
Se Qiao non parla, e anche Bin si limita a una manciata di discorsi, il montaggio è piuttosto eloquente. Egli immagina e si fa carico delle bizzarrie della loro storia d’amore marcando, attraverso la moltiplicazione di dissolvenze o, al contrario, tagli netti (collegando primi piani e campi lunghi su paesaggi immensi, con variazioni (a cui Jia Zhangke è abituata), il le fughe, i momenti di ricerca e poi i loro ricongiungimenti. Nella tradizione muta, le didascalie a volte sostituiscono anche le parole mostrando, sullo schermo, i messaggi di testo inviati da Qiao a Bin – la maggior parte dei quali sono rimasti senza risposta.
L’emozione prodotta da questo confuso dispositivo, semi-immaginario e semi-muto, ha ovviamente molto a che fare con il rapporto che possiamo avere con i film passati di Jia Zhangke, di cui riconosciamo certe immagini e perfino certe scene in molte occasioni. . La matrice Piaceri sconosciuti (2002), già teatro della separazione tra un certo Bin e un certo Qiao, guida la prima parte della storia mentre la trama di Natura mortaforse uno dei più grandi film del regista, costituisce la spina dorsale del segmento centrale, in cui Qiao cerca le tracce del suo ex compagno attraverso le decrepite strade di Fengjie.
Ad eccezione della terza parte contemporanea, scattata nel 2022 da Jia Zhangke alla fine della pandemia di Covid-19, la maggior parte delle immagini lasciano un’inquietante sensazione di déjà vu. Tra scatti diretti (quello di una donna intrappolata in un autobus fermo, violentemente spinta all’indietro come una palla sul sedile) o scatti rapidi non utilizzati ma che evocano scene emblematiche (Zhao Tao, maglietta gialla e bottiglia d’acqua in mano, vagabondare vicino al fiume Yangtze), Incendi selvaggi offre una sorta di archeologia della sua filmografia.
Melodramma d’archivio, Incendi selvaggi è quindi anche un film di fantasmi, abitato e inseguito dagli spettri di un Paese trasformato e, per estensione, di un’opera che non ha mai voluto veramente separarsi dal proprio passato, ripetendo ossessivamente le stesse situazioni o ripercorrendo le stesse ambientazioni, per meglio misurare i loro sconvolgimenti nel tempo. Questo è il significato del titolo internazionale del film – Catturato dalle maree – che precipitarsi in questa nostalgia, con scene e figure del passato che ritornano, come la risacca delle onde, scomparendo sulle sponde del presente.
Incendi selvaggi agisce quindi come un’impresa quasi archeologica, principalmente attorno a Zhao Tao, attrice principale e compagna del regista. Il film documenta ciò che è cambiato in lei, fino alle rughe rivelate dopo essersi tolta la maschera chirurgica davanti a uno specchio sul posto di lavoro. Ma anche ciò che è rimasto una costante tra due decenni: la sua postura eretta, il suo volto chiuso, il suo sguardo perforante l’orizzonte. “Sembri triste”, gli dirà un robot dalle espressioni formattate e precalcolate in un centro commerciale.
Jia Zhangke esamina così la superficie della sua attrice per tentare di sondarne meglio l’inaccessibile interiorità, così come studia la superficie plastica dei propri archivi cinematografici. In un certo senso, il film si inserisce indirettamente in un processo di ricerca vicino a quello dell’archeologia dei media, giustapponendo attraverso il montaggio diversi regimi di immagine, a partire dalle prime fotocamere digitali apparse all’alba degli anni 2000. allo sguardo algoritmico e automatizzato di una telecamera a 360° nell’ultimo segmento.
È questo il vero fil rouge del film, che fa il punto sulle evoluzioni formali di un cinema nato, come accennato in precedenza, con la democratizzazione di strumenti e supporti tecnici che ha permesso di documentare sul posto le mutazioni della Cina contemporanea. Inquadrature girate con telecamere DV, ma anche in 16 mm, in 32 mm, poi finalmente in alta definizione: la trama del mondo ripreso dal cineasta in vent’anni si evolve secondo i cambiamenti nella trama delle immagini stesse, comprese le variazioni che raccontano una sorta di purificazione, sinonimo in tempi di crisi sanitaria di un crescente igienismo estetico.
Nel cambiamento visivo che apporta rispetto ai primi due segmenti, la terza e ultima parte del film, girata con una telecamera HD dalla morbida plasticità, è la più sorprendente sotto questo aspetto. A poco a poco, le immagini sono diventate più pulite, liberate dalla grana della pellicola o dalle imperfezioni del segnale digitale dei primi anni 2000, i cui bordi irregolari persistono solo attraverso una ripresa di videosorveglianza di un’esposizione di frutta. e verdure. La polvere di un universo in costruzione e i malfunzionamenti del video a buon mercato sono scomparsi, accentuando la sensazione melodrammatica di un passaggio forzato a un’epoca favorevole alla repressione del passato.
Sono cambiati i volti, sono mutate le immagini e i paesaggi si sono trasformati: ora sono levigati, plastificati, disinfettati. Il caos urbano tipico dell’era dello sviluppo economico cinese, documentato fin dall’inizio del film, contrasta ad esempio con la coreografia molto controllata su cui si svolge la corsa collettiva messa in scena nell’ultima inquadratura del film. Incendi selvaggidove Zhao Tao si confonde tra la folla per camminare allo stesso ritmo dei passanti, tutti con braccialetti fluorescenti per farsi vedere di notte.
Se il film spesso sconvolge, è anche perché fa una constatazione un po’ amara su ciò che il cinema di Jia Zhangke può ancora filmare nella dittatura digitale in cui ha inghiottito il suo Paese. La modernità dimostrata dai suoi primi film, raffiguranti con rumore e rumore il vagabondaggio di persone emarginate dal futuro travagliato e incerto, appare infatti un progetto quasi anacronistico. La disillusione che il cineasta coglie negli occhi delle sue ex amanti, profondamente fuori passo rispetto al loro tempo e al loro ambiente (che si tratti di Qiao o di Bin, tornato a Datong dopo un lungo esilio: l’osservazione è simile), è anche quella che attinge al proprio cinema.
Sei anni di differenza, infatti Incendi selvaggi dalla sua ultima fiction, Gli Eterniil cui titolo risuonava in modo paradossale: già, nella città di Datong, una ballerina di nome Qiao e un gangster di nome Bin si separavano e si ritrovavano, amareggiati nel vedere il loro rapporto svanito a causa della trasformazione irreversibile di un intero Paese. Ciò che il cinema di Jia Zhangke ha mostrato si è analogamente dissipato davanti ai nostri occhi, come se la bellezza del suo lavoro risiedesse proprio nella sua propensione a documentare la progressiva scomparsa del suo soggetto (la transizione capitalista) e della sua forma (la transizione digitale), misurando la pellicola dopo filmare il proprio finale.
Questo è forse il cuore tragico della sua filmografia, che la minaccia un po’ di più a ogni nuovo affresco retrospettivo: misurare la crescente impossibilità di fermare il tempo, di vedere il contemporaneo scivolare via ogni volta un po’ di più. pensiamo di immortalarlo sullo schermo. In Incendi selvaggianche il melodramma secondo Jia Zhangke è un crepacuore baziniano: la “mummia del cambiamento”[2] alla fine è ancora solo una mummia, in questo caso il cadavere di un’epoca decisamente passata.
Incendi selvaggi di Jia Zhangke, nelle sale dall’8 gennaio.
Corentin
Critico, vicedirettore capo di Critikat
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