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“Grand Tour”: un viaggio attraverso l’Asia per incontrare i fantasmi coloniali

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Il “grande viaggio” annunciato nella locandina di Gran Giro va preso con un pizzico di sale. Il suo percorso è quello intrapreso dagli occidentali all’inizio del XX secolo.e secolo in un’Asia ancora sotto il giogo europeo, partendo da una delle città indiane dell’Impero britannico per finire, passo dopo passo, in Giappone o in Cina.

Non lo seguiamo quindi in modo banale. Inoltre, se la riproduzione di questo percorso di Miguel Gomes, nove anni dopo le Mille e una notteproduce visioni di viaggio molto belle, sarebbe quindi opportuno svelarle, sviscerare il piacere che si prova nella loro osservazione per rivelare ciò che realmente racchiude.

1918. La bella e candida Molly (Crista Alfaiate) arriva dall’Inghilterra a Rangoon, in Birmania, per incontrare il suo fidanzato Edward (Gonçalo Waddington) per il loro matrimonio. Ma al suo arrivo la giovane trova soltanto una lettera. La fidanzata, fuggita a Singapore, sostiene di essere stata costretta da un viaggio d’affari: in realtà il nebbioso impiegato statale inglese non fa né più né meno che bazzicare i bar della colonia britannica.

Viene lanciato il gioco del gatto col topo, che porterà la coppia da Saigon a Tokyo passando per Bangkok o Hong Kong. Ogni volta, quando arriva uno, l’altro ha già fatto le valigie. Questo passo a due nella modalità “fuggimi, ti seguo” porta Miguel Gomes ad aprire il suo viaggio in Asia come un libro illustrato, onorando in parte la promessa turistica formulata in superficie.

Un film girato in parte a distanza, nel bel mezzo di una crisi sanitaria

Di più Gran Giro è in verità un film “per caso”, come il treno che si arena in mezzo alla giungla, confondendo ulteriormente il già perduto Edward. Un film girato in parte a distanza nel bel mezzo di una crisi sanitaria, con Gomes che controlla a distanza una troupe cinematografica cinese da Lisbona nell’ultima tappa del viaggio. Un film, soprattutto, pensato fin dall’inizio come un accumulo di immagini di nature sparse.

Laddove sarebbe necessario che l’intera Asia assicurasse la realizzazione dell’epopea coloniale di Edward e Molly, sono i paesi stessi a interessare davvero Gomes. Le visioni documentaristiche quasi neorealiste impongono i loro artefatti contemporanei – scooter o smartphone – su un passato feticizzato ereditato da Hollywood. E registrazioni di intrattenimento popolare, teatro delle ombre o marionette girate a colori, comprese Gran Giro diventa l’archivista inaspettato, introducendo altre immaginazioni nel tessuto. Lungo il pendio decadente del racconto, le decorazioni in cartone finiscono per rivelare la loro falsità, simili ai paesaggi dell’artista visiva Noémie Goudal.

Questi andirivieni da un regime visivo all’altro complicano la situazione figurativa indotta dalla storia di questa coppia, tutto sommato aneddotica, e danno Gran Giro una rara rivolta nel cinema. Appare, verso la fine, un bellissimo personaggio, Ngoc (Lang-Khê Tran), servitore in casa di un ricco proprietario, che apre a Molly il suo mondo. Al contatto, il film conferma ciò che lo spettatore ha sentito fin dall’inizio: l’essenziale qui è l’ambiente circostante.

Gran Giro, di Miguel Gomes, Portogallo-Italia-Francia, 2 h 8

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