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Tormenti di lingua | Dovere

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Quando voglio darle un nome, mi scivola via, la lingua. Mi toglie le parole dalla bocca. Come parlarne senza scegliere, tra lo scritto o l’orale, l’urbano, il rurale, il materno, l’intellettuale, il volgare, il misto, l’anglicizzato, l’arcaico, il poetico, l’insulto, il dimenticato, il nemico? Hanno tutte un valore patrimoniale, le mie lingue, anche se non sono tutte rinchiuse nei libri. E anche se a volte litigano tra loro. La scrittura imbriglia, vincola, sterilizza. La lingua orale scompare, è assente, a volte scompare.

Tornando indietro nel tempo utilizzando gli archivi cinematografici, Félix Rose, figlio di Paul, quello del FLQ, ripercorre nel documentario La battaglia di Saint-Léonard la feroce lotta condotta da Raymond Lemieux per l’integrazione degli immigrati nelle scuole francesi, nel distretto di Saint-Léonard, diversi anni prima della legge 101.

Tra le immagini in bianco e nero degli anni ’60, ci colpisce la combattività dei militanti per la lingua francese, i giovani che occupano le scuole, che manifestano nelle strade, in Parlamento, con i cartelli in mano, a testa alta sotto gli insulti. Quelli di Pierre Elliott Trudeau, ad esempio, allora ministro federale della Giustizia, che parlerà, in inglese, della lingua dei quebecchesi di “ francese schifoso “, una “lingua schifosa”, aggiungendo che non concederà ampi poteri ai cittadini del Quebec finché parleranno joule. “Che sia schifoso o no, parliamo una lingua, tutto qui”, risponde un giovanissimo Michel Tremblay, la cui commedia Cognate è appena salito sul palco, alle domande di Bernard Derome.

Circa sessant’anni dopo, gli animi, ottusi dalla legge 101, si sono francamente calmati riguardo alla lingua francese. Leggiamo con occhio cupo le offensive statistiche sul suo futuro, soprattutto a Montreal, dove le braci della guerra di nervi tra francofoni e anglofoni continuano ad accendersi nell’ombra, su entrambi i lati del Boulevard Saint-Laurent. Stiamo assistendo alla diminuzione delle lezioni di francese per gli immigrati. Rimproveriamo con un po’ di stanchezza i nostri figli quando “tirano”, quando “lavorano”, brandendo un Franglais pensato come vessillo distintivo di una generazione bagnata di rap. “Finché c’è vita, c’è fortuna”, come dice la canzone.

Ma l’indiscutibile David Goudreault, questo folle amante delle parole e della poesia, che è stato appena citato in Il piccolo Robertotorna sulle barricate con È la lingua!, opera collettiva pubblicata nella nuova raccolta Le Robert Québec. Ha invitato dodici scrittori a condividere le loro riflessioni sul patrimonio linguistico. “Rifiutarsi di tacere”, scrive, “questa è già la cosa essenziale. » E peccato se troppo spesso l’opinione pubblica fa rima con intolleranza.

Di tutte queste testimonianze, quella della cantante acadiana Édith Butler mi ha commosso di più. Nessuno racconta la storia della lingua come gli Acadiani, sia che vivano in Louisiana o nel New Brunswick. Sa distinguere gli accenti originali dell’epoca Champlain, “del Poitou, della Charente, di Aunis, di Saintonge, dei Paesi Baschi, dell’isola di Jersey, e molti altri ancora”. Traccia gli incroci con le lingue indigene. Poi, proprio nel momento in cui, oltreoceano, l’Accademia di Francia “eliminava una moltitudine di parole, verbi ed espressioni, scriveva regole, tagliava i dialetti regionali per uniformarli, la lingua francese in America, troppo lontana da tutti questi sconvolgimenti linguistici , ha conservato il suo vocabolario ruvido e denso e la sua sintassi della Francia prima dell’Accademia. Nel suo villaggio, ha detto, la gente si pronunciava SU In UNcome in “I ragazzini che suonano il violino”. In quello accanto era il contrario: “è dimonche, mangia la tua carne”, dicevano.

Ci sono lingue che amo e altre che odio. La peggiore di tutte è la lingua di legno, quella che non è una, quella che non dice nulla sotto maschera di eleganza, quella che gira in tondo e non va da nessuna parte, e che sentiamo troppo spesso, soprattutto negli ambienti governativi, al posto dell’azione.

Ma sogno ancora di viaggiare in Quebec per salvare dall’oblio alcune gustose espressioni del Quebec. Sul molo Carleton, in Gaspésie, l’anno scorso, ho imparato che si dice “avere i piedi rotondi” per “essere ubriachi” e “mettersi la pelle sugli occhi” quando si va a letto. Recentemente, un’amica di Beauce mi ha parlato di persone del suo villaggio che una volta erano “cresciute” nella sua stalla. La lingua è viva, ma non eterna. Devi dirlo e ripeterlo per farlo durare.

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