Al Théâtre de Poche, Christophe Barbier ride dei potenti con Offenbach

Al Théâtre de Poche, Christophe Barbier ride dei potenti con Offenbach
Al Théâtre de Poche, Christophe Barbier ride dei potenti con Offenbach
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CRITICA – In Offenbach e i tre imperatorila sua nuova opera teatrale al Théâtre de Poche, Christophe Barbier ritorna in musica alla vita del compositore tedesco. Una biografia melodica che permette all’opinionista politico di strizzare l’occhio anche all’attualità.

In quest’anno 1867, a Parigi circola la voce che tre imperatori, venuti in Francia per l’Esposizione Universale, comprimeranno le loro maestà nell’unico Café Anglais, per una cena senza precedenti storici. Ma basteranno i sedici piatti e gli otto vini che li aspettano a soddisfarli? Preoccupato, il ministro dell’Interno convoca l’uomo in vista dello spettacolo parigino: il compositore Jacques Offenbach, maestro dell’operetta con 640 opere, affinché produca il meglio della sua arte davanti a questi prestigiosi ospiti, fino a strapparne una a loro: «Vive l’Empire, vive la ». Almeno, 150 anni dopo (ma non diciamo che la politica deve riconnettersi al lungo termine?), questa è la soluzione che Christophe Barbier immagina per Place Beauvau, nella messa in scena della sua nuova pièce al Pocket Theatre: Offenbach e i tre imperatori.

La sera, questo ostinato commentatore della vita politica lascia la televisione per il palcoscenico, la sciarpa rossa per la giacca grigia e l’esegesi elisiana per la canzone galante. L’evento della delegazione imperiale funge da pretesto per un ritorno alla vita e all’opera di Offenbach, che interpreta accanto a Pauline Courtin nel ruolo della diva Hortense Schneider e Vadim Sher nel ruolo dello curiosamente amante della musica Alessandro II. In un’ambientazione che evoca i ristoranti parigini del Secondo Impero, il trio canta, accompagnato dal pianoforte, quasi venti brani, tra i più famosi del compositore tedesco.

Christophe Barbier si rivela cantante, ballerino, insetto allucinatorio, in una parola, uomo-orchestra entusiasta della sua complicità spirituale con il compositore. Un passaggio in particolare fa luce sul loro rapporto: a Barbier-Offenbach vengono chiesti i motivi del suo successo e l’origine della sua passione per la scrittura; lui risponde che cerca di soddisfare i desideri di gioia dei parigini, stanchi di autori istituzionali affetti da una curiosa malattia di Creso: ogni argomento che toccano diventa non dorato, ma standardizzato, seguendo imperativi melodrammatici. Come Offenbach rideva delle produzioni artistiche del suo tempo, Barbier ha una visione opposta dei film biografici contemporanei in cui l’esistenza non è più concepita come un pendolo, che immaginiamo sia redditizio, che oscilla tra dolore e tristezza. La loro trama segue lo stesso schema: le cose vanno male e le cose non migliorano. Speculiamo sul tasso di cambio del destino nella tragedia. Niente di tutto questo in Offenbach, la cui musica è come lo scintillio delle bollicine di champagne, dove l’amore dura solo il tempo dell’ebbrezza giocosa, dove l’esistenza è alleggerita dal peso della necessità, dove anche la vera sventura si trasforma in sorridente rimpianto.

Ma, e questo è l’altro aspetto di Offenbach e l’altro aspetto di questa pièce, la leggerezza si unisce alla satira politica. Quando i nostri politici amano presentarsi come stoici severi, preoccupati solo dell’interesse generale, qui viene evidenziato il ruolo delle passioni nella condotta del regno. Se il compositore tedesco piace così tanto a Christophe Barbier, è anche perché gli intrighi di corte di cui Offenbach ha fatto oggetto delle sue opere sono stati commentati dall’editorialista politico per trent’anni. Perché nell’opera buffa i padroni del mondo sono guidati da socialite, e le decisioni più grandi dipendono dalle più piccole serrature; Offenbach, è Labiche a dipingere la morale dell’Olimpo. Torniamo allo spirito della mitologia greca, lontano dai lamenti e dalle imprese eroiche, dove la differenza tra il dio e i grandi di questo mondo è analoga a quella che separa il grande stesso dall’uomo comune: sta nella grandezza delle calamità. diffuso dai finimenti del suo desiderio e dall’allentamento delle sue briglie. Il francese, che conosce fin troppo bene la crisi in cui lo ha gettato il suo presidente, non ci mette molto a riconoscere dei modelli in questi abitanti delle nuvole: non c’è molto lontano da Giove a Giove.

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Un’altra lezione che ci danno Offenbach e Barbier: possiamo difendere la causa femminile in modo intelligente. Questo spettacolo mette in risalto la cantante Hortense Schneider, una figura poco conosciuta, anche se in gran parte responsabile del successo di Offenbach: è indipendente e libera come lo sono le donne nelle sue opere, siano esse “figlie di Giove o fanciulle della gioia”mentre gli uomini sono schiavi dei desideri che ispirano. Potremmo aggiungere: e ideologie decretate dalle tristi muse moderne. La storia cade, Offenbach e i tre imperatori potrebbe essere tra 150 anni Thomas Jolly e i tre primi ministri : per decretare che siano tutti e tre francesi, un regista troverebbe addirittura più o meno rispettata l’unità del tempo.

Alla fine dell’opera di Christophe Barbier, un protagonista si lamenta (come si lamenta a Offenbach, con la musica e con un sorriso sul volto): “Perché devi essere grigio per vedere la vita in rosa?” E lo spettatore torna a casa con questo pensiero: forse il teatro e la musica sono gli unici a procurare una sobria ebbrezza, forse sono gli unici paradisi artificiali da cui non si cade, ma si atterra.

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