Ayana Mathis: “La storia con la “S” maiuscola non mi interessa” (seconda parte)

Ayana Mathis: “La storia con la “S” maiuscola non mi interessa” (seconda parte)
Ayana Mathis: “La storia con la “S” maiuscola non mi interessa” (seconda parte)
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I folli anni ’80, i neri americani in lotta con i suprematisti, il divario sociale, questi alcuni dei temi del nuovo romanzo dell’americana Ayana Mathis. Con Il perdutol’autore del bestseller, Le dodici tribù di Hattieoffre una potente storia di impegno e ricerca di nuove utopie. Colloquio.

RFI: I tuoi due romanzi sono stati tradotti in francese. Che ricordi hai delle tue interazioni con il pubblico francese durante le tue visite in Francia per il lancio dei tuoi libri?

Ayana Mathis: Ho ricordi indimenticabili. Ho avuto la possibilità di viaggiare in grandi e piccole città francesi per incontrare i lettori, durante i festival del libro o nelle librerie. L’accoglienza è sempre stata estremamente calorosa e spesso seguita da discussioni che per me sono sempre molto arricchenti. Sono stato felice di notare che il pubblico francese a volte si concentrava su aspetti dei miei romanzi che erano sfuggiti al pubblico americano. Ricordo in particolare un incontro e una sessione di autografi in una libreria, che era in una piccola città, credo in Bretagna. La sala era gremita di gente, ma lo scambio era particolarmente ricco di domande che piovevano ogni due minuti, al punto che il traduttore non sapeva più a chi rivolgersi. Sono stato bombardato da domande, spesso domande mirate sulla storia afroamericana, sulla religione, sull’impatto della religione sulla società… Sono rimasto sbalordito dalla rilevanza delle domande. La cosa che più mi colpisce ogni volta che sono in Francia è l’attaccamento del grande pubblico ai libri. C’è un vero culto e una cultura del libro in questo paese. Mi ha sempre colpito la serietà con cui il grande pubblico francese parla dei romanzi stranieri, di ciò che ha capito e di ciò che non ha capito.

Dopo Le dodici tribù di Hattieil tuo primo romanzo, ecco il secondo che esce in francese con questo titolo Il perduto. Il prologo che apre questo romanzo pullula di nomi propri: Toussaint, 248 Ephraïm Avenue… Cosa volevi fare inondando il lettore di tutti questi nomi propri, fin dall’inizio?

Mi piace cospargere l’inizio dei miei romanzi con nomi propri, che aiutano a stabilire la storia fin dalla prima pagina. Questi nomi propri servono come parametri di riferimento. Questi segnali sono importanti per il lettore che, entrando in un libro, esce dal regno del silenzio per entrare in un mondo brulicante di voci che si parlano, si intersecano. Per non perdersi ha bisogno, credo, di questi nomi propri, che permettono di distinguere i personaggi gli uni dagli altri. Do nomi di strade, numeri, tanti supporti tangibili a cui il lettore può aggrapparsi, mentre prende possesso intellettualmente del mondo immaginario che il romanzo gli offre.

“Toussaint Wright” sono le prime parole del prologo. Questo è il nome del tuo protagonista principale. È un nome ricco di riferimenti storici e di allusioni.

Questo nome si riferisce, infatti, a Toussaint Louverture, che fu, come sapete, il famoso generale haitiano, che guidò la ribellione contro i proprietari bianchi dell’isola nel XIX secolo, costringendoli a porre fine alla schiavitù. Volevo un nome per questo personaggio che ricordasse la lunga storia dei neri americani impegnati nella lotta per liberarsi dalle proprie catene. Man mano che avanziamo nella storia, capiamo perché il padre del giovane Toussait ha voluto dare a suo figlio un nome carico di storia.

La storia con la “H” maiuscola è la principale forza trainante del tuo romanzo. Gran parte della trama si svolge a Filadelfia, città che conosci bene. La sua storia si intreccia con quella di Ava, Dutchess e Toussaint. In particolare, rivisiti l’attentato della polizia, avvenuto circa quarant’anni fa, contro il collettivo ambientalista e anarchico nero conosciuto con l’acronimo MOVE. Questa tragedia ha segnato la storia moderna di Filadelfia.

In realtà sono di Filadelfia. Certo, oggi vivo a New York, ma sono nato e cresciuto a Filadelfia. Nella mia famiglia scherzavamo dicendo che la storia degli ultimi 100 anni di questa città non si sarebbe potuta scrivere senza di noi. Non è così esagerato. I miei nonni si stabilirono qui all’inizio del secolo scorso. Siamo qui da molto tempo. Avevo 11 anni quando il 13 maggio 1985, in occasione della festa della mamma, la polizia municipale lanciò da un elicottero cariche esplosive sugli edifici occupati dai membri dell’organizzazione ambientalista MOVE. Questa tragedia è stata una ferita aperta nella coscienza della mia città, una ferita che non si è ancora veramente chiusa. Questa violenza pura, esercitata da uno Stato onnipotente con l’unico obiettivo di devastare e annientare i recalcitranti, mi attira da tempo. Certamente gli attivisti del MOVE erano vicini difficili e turbolenti. Forse nelle case si erano rifugiati anche dei fuorilegge, ma è sufficiente questo per bombardarle? Durante l’operazione morirono undici persone, tra cui cinque bambini. La mia ambizione in questo libro non era tanto quella di rivisitare questa tragedia, quanto quella di rendere omaggio alle vittime della violenza della polizia e dello stato.

I tuoi romanzi non sono racconti storici in senso strettoma sono ispirati ad eventi storici, di un periodo storico. Gli anni ’30 nel primo romanzo, gli anni ’80 nel nuovo romanzo. Come lavori con il materiale storico?

La storia con la “H” maiuscola non mi interessa. Lo scrivo sempre con la “h” minuscola. Con questo intendo dire che la storia nasce dalle decisioni prese dagli uomini e dalle donne al potere, ma che determina e sconvolge la vita di tutti. Non è un movimento astratto, ma esiste materializzandosi nella vita quotidiana delle persone. Il romanzo, che ci permette di comprendere la vita in tutta la sua materialità e temporalità, è, a mio avviso, il quadro ideale per cogliere la storia e le sue ripercussioni sulle esperienze delle persone. Nei miei romanzi la storia non si riduce a un quadro immateriale, ma è sorgente della vita e della società e si manifesta attraverso il vissuto dei personaggi, la loro immaginazione o le loro contraddizioni. In altre parole, l’uomo è storia.

Questo è ciò che senza dubbio spiega perché nei tuoi due racconti i tuoi personaggi acquisiscono, strada facendo, dimensioni quasi epiche, addirittura metaforiche, rappresentative delle rispettive epoche. Puoi parlarci dei personaggi principali di Perdutovale a dire Dutchess, Ava e Toussaint, le cui esperienze di vita strutturano questo romanzo?

Mi ci sono voluti dieci anni buoni per scrivere questo romanzo. Dieci anni per trovare le voci distintive di ogni personaggio, tra cui Dutchess, Ava e Toussaint. Dutchess è la madre di Ava e la nonna di Toussaint. Toussaint, un adolescente, non ha mai incontrato sua nonna che vive in Alabama, in una città chiamata Bonaparte. Bonaparte è un ex comune autonomo fondato da schiavi liberati e che Dutchess sta cercando di salvare dall’appetito degli imprenditori immobiliari bianchi. Quanto ad Ava, che si è allontanata dalla madre e si è lasciata coinvolgere in un progetto nero radicale, vicino al movimento delle Pantere Nere. L’idea di questa comunità collettiva e utopica, situata nel cuore di Filadelfia, è stata ispirata dall’organizzazione MOVE, i cui attivisti hanno subito un tragico destino. Toussaint, dal canto suo, abbandonato dalla madre, cerca di unirsi alla nonna per aiutarla nella sua lotta. Passato, presente e futuro sono incarnati dai suoi tre protagonisti. Ma Il perduto non è solo un romanzo storico, è anche una saga familiare. I suoi personaggi, Dutchess, Ava e Toussaint, fanno parte di una famiglia distrutta. Non si conoscono più veramente e faticano a trovare la strada della riconciliazione. La loro diffidenza reciproca è alimentata dai mille chilometri che separano l’Alabama da Filadelfia, ma anche dai loro vecchi e recenti conflitti e dalle loro incomprensioni.

Lotte e trasformazioni sociali sono al centro dei tuoi romanzi. Ti definiresti “ scrittore impegnato » ?

Assolutamente no. Sono arrivato alla scrittura grazie al mio interesse per le vite minuscole, emarginate e dimenticate di cui cerco di ricreare i viaggi attraverso i miei romanzi. I miei personaggi sono per lo più afroamericani, spesso donne, donne povere che vivono ai margini della buona società. Sono esseri magici, fonte inesauribile per me di fascino, anche di dolore e di tanta confusione. Questi personaggi sono il prisma attraverso il quale apprendo il mondo per cercare di coglierne il disegno.

Chi sono i tuoi modelli di scrittura?

Mia madre leggeva molto. Grazie a lei sono cresciuto leggendo e ammirando una moltitudine di autori. Ho imparato a scrivere leggendo e talvolta rileggendo alcuni capolavori della letteratura americana. Sono loro le mie fonti di ispirazione oggi. Per Il perdutoMi sono ispirato ai saggi colorati e rabbiosi di James Baldwin, ma anche ai romanzi di Toni Morrison e William Faulkner. La narrazione circolare di Faulkner mi è stata di grande aiuto in questo romanzo in cui la trama procede in modo speculare, rivisitando eventi del passato dei personaggi. Tra gli autori viventi, la scrittrice che ammiro di più è senza dubbio l’americana Louise Erdrich. Anche lei trae materia dalla storia della sua famiglia, intrecciando i destini con una genialità che mi lascia sempre senza parole per l’ammirazione. Ho pensato molto a Louise Erdrich mentre scrivevo Il perduto.

(Intervista tradotta dall’inglese da T. Chanda)


Il perdutodi Ayana Mathis. Tradotto dall’inglese da François Happe. Edizioni Gallmeister, 528 pagine, 25,90 euro.

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