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Giocarefirmato dallo svedese Alexandre Ekman, è uno spettacolo ripreso dal Balletto dell’Opera di Parigi sette anni dopo la sua creazione. E questo è deplorevole.


Dovremmo riprogrammare Giocareuno spettacolo coreografico creato sette anni fa all’Opera di Parigi? Fare la domanda significa rispondere! Tuttavia, questa produzione, tanto piacevolmente vuota quanto spettacolare, funziona perfettamente su un pubblico che sembra del tutto privo di discernimento e che esulta. In questi tempi in cui la gestione economica di un teatro può facilmente prevalere sul valore artistico di ciò che offre, voltare le spalle all’intelligenza mettendo in scena uno spettacolo sensazionale non costituisce certo un problema poiché si tratta soprattutto di riempire le casse dell’Opera. .

Una sensazione vertiginosa

Facendo appello al lavoro di improvvisazione dei suoi trentacinque artisti del Balletto dell’Opera di Parigi, il cui coraggio ed eccellenza tecnica sono certamente degni di lode, Ekman ha montato con Giocare una macchina grande e costosa che si presenta come un vero e proprio catalogo di quanto è stato fatto in scena negli ultimi decenni. Aprendosi con quella che non potrebbe essere altro che una sessione di aerobica alla quale partecipano tutti i ballerini, lo spettacolo accumula sequenze senza coda né testa e senza altra ambizione apparente se non quella di arredare lo spazio e il tempo. Per fare questo, Ekman ha attinto senza troppa vergogna al repertorio contemporaneo, e anche oltre, a ciò che altri oltre a lui hanno messo in scena, per offrire al pubblico immagini divenute familiari nel tempo, specifiche per consolarlo nella vertiginosa sensazione di scoprire una modernità che, già, non lo è più.

“Lo scopo ultimo della danza è la danza”

Perché Ekman obbedisce, forse inconsciamente, a un approccio molto giudizioso: in mancanza di idee personali, prende gentilmente in prestito quelle degli altri in un toccante spirito di fratellanza.

Una scenografia in stile Robert Wilson con un immenso e magnifico palcoscenico bianco, che rivela il palcoscenico dell’Opera in tutta la sua portata; un cosmonauta che vaga sul set aggrappato a una bandiera o a gesti ripetuti più e più volte (ancora Wilson); testi cantati con voce fuori campo e ovviamente in inglese; una ballerina con il busto nudo che emerge da una crinolina oversize (Carolyn Carlson); un’interprete angosciata che chiama nel vuoto, per poi parlare in modo familiare agli spettatori in prima fila (Pina Bausch); un albero piantato lì, solo in questa bianca immensità (ancora Carlson); elementi cubici sospesi in aria che, una volta calati sul palco, ostacoleranno il percorso dei ballerini (François Morellet e Andy De Groat); ancora questa ragazza che attraversa il palco molto lentamente, un po’ come Lucinda Childs in Einstein sulla spiaggia ; e perfino lo spettro velato di una ballerina che si tiene sulle punte, proprio come nell’atto di Willis Giselle. Abbiamo così catalogato quarant’anni di creazione e più. E per buona misura, pronunciamo vocalmente e per iscritto frasi prodigiosamente idiote come: “Lo scopo ultimo della danza è la danza.”

Di Jeux ha Giocare

Prima ancora che la coreografia abbia inizio, quando vediamo quattro ragazzi, sassofonisti in tenuta da tennis, cadere sul palco, come non pensare a Jeux, una coreografia ormai dimenticata di Nijinsky composta su partitura di Debussy, e che non ebbe la fortuna, nel 1912, di attirare il sostegno del pubblico dei Ballets Russes?

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Centododici anni dopo, mentre i titoli inglesi delle opere di danza seminano il caos in un mondo coreografico meravigliosamente imbarazzato, possiamo ancora chiederci perché un pezzo commissionato a uno svedese da un’istituzione francese come il Ballet de l’Opéra di Parigi, e destinato principalmente ad un pubblico francofono, si intitola perfettamente gratuitamente in inglese ed è pieno di sciocchezze nella stessa lingua. Giocare così sostituito Jeux, con il risultato di un’opera francamente indigente, vuota di sostanza come sono eruditi i testi del compiacente programma che l’accompagna, e dove i riferimenti ad Artaud, Shaw, Baudrillard, Freud, Perec, Fink, Bourdieu, Shakespeare… così come Era imperativo citare grandi nomi per giustificare l’insignificanza delle osservazioni di Ekman.

Play (Alexander Ekman), Balletto dell’Opera di Parigi © Agathe Poupeney OnP

Prêt-à-porter moderno

Il punto? Qual è il punto comunque? Secondo i contributi scritti per il programma che commentano o, più precisamente, elogiano lo spettacolo, in Giocare la nozione di gioco assume una dimensione tutta filosofica. La realtà è più amara. E gran parte della serata è sommersa da migliaia di palline verdi in cui annegano i ballerini e da una coreografia assolutamente priva di interesse.

Non è brutto. È vuoto! Aneddotico!

Per essere onesti, bisogna riconoscere che alla fine dello spettacolo tutti i ballerini, appollaiati sui cubi ed eseguendo gesti molto semplici, ma efficaci secondo i canoni, questo insieme forma una scena molto bella. Questo è anche l’unico momento avvincente Giocare che è ben accompagnato da una partitura finalmente pacifica, scritta per strumenti ad arco da un altro scandinavo, Mikael Karlsson. Tanto è bastato per suscitare, appena calato il sipario, gli applausi del pubblico, felice di aver assistito a tanta agitazione fin dall’inizio delle manovre e che speriamo riserverà una standing ovation soprattutto per l’impegno fisico. Ma Ekman, astuto come un imbonitore da luna park, che gioca con la facile seduzione come un rappresentante di vendita, non ha ancora detto la sua ultima parola. Il sipario si alza per rivelare un cantante afroamericano che è arrivato lì come un capello nella zuppa… prima che i ballerini lancino nella sala dell’Opera palloncini giganteschi che cadono pesantemente in testa o lanciano palline gialle agli spettatori che questi ultimi restituiscono sul palco con l’euforia di farne parte. È finita: questa volta, al secondo calare del sipario, in un entusiasmo irrazionale, la maggior parte degli spettatori, elettrizzati, si alzano per fare una standing ovation. Per renderli così entusiasti è bastato, come un barboncino, lanciargli una palla.


Giocarecon il Balletto dell’Opera di Parigi. Opéra Garnier, fino al 4 gennaio 2025.

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