Al Museo d’Arte Moderna di Parigi, il ritorno della minaccia nucleare

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«Vuoto pagano» (1946), di Barnett Newman. GALLERIA NAZIONALE D’ARTE, WASHINGTON/2024 FONDAZIONE BARNETT NEWMAN/ADAGP, PARIGI, 2024

Era un po’ scomparsa dalla mente della gente. Vladimir Putin, Kim Jong-un e pochi altri hanno reso di nuovo di moda la minaccia nucleare. Occupa le sale del Museo d’Arte Moderna di Parigi fino al 9 febbraio 2025 per una mostra in corso. “L’era atomica” affronta l’argomento dal punto di vista della creazione plastica. Oltre alle opere, esistono sezioni documentarie in cui si accumulano testi e immagini, spesso ridondanti. Ce ne sono così tanti e appesi così fitti che a volte diventa difficile sapere quale elemento corrisponde a quale cartello e l’occhio non sa più dove atterrare. Lo stesso vale per i dipinti, che si susseguono lungo le pareti con ritmo più che sostenuto. Tutto questo è un viaggio lungo ed è prudente dedicare due ore del proprio tempo per cercare di vedere e leggere tutto.

Ci sono, in questa abbondanza, opere capitali, a cominciare da quella che accoglie i visitatori all’ingresso, Vuoto paganodi Barnett Newman (1905-1970), un cerchio nero al centro di una nuvola bianca che appare liquida e dove fluttuano schizzi blu. Essendo Newman americano e opera del 1946, la sua presenza in questo luogo suggerisce di riconoscere un riferimento ai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki dell’anno precedente.

Questa interpretazione non è l’unica che si può proporre e talvolta abbiamo creduto di vedervi la rappresentazione di un’eclissi, ma, qualunque sia quella che scegliamo, sono poche le opere che, attraverso il colore e le forme, sprigionano un sentimento più denso di paura. All’altra estremità della mostra c’è Eternitàdi Luc Tuymans, una grande sfera rossa che irradia la sua luce che non sappiamo se sia la nube di un’esplosione o la cupola immaginata dal fisico nazista Werner Heisenberg, uno degli attori del progetto Uranium deciso da Hitler nel 1939. Anche in questo caso è alla forma e al cromatismo che l’opera deve la sua forza, più che a ciò che mostrerebbe. Le due opere si rispondono quindi a distanza.

>« L'eternità » (2021), di Luc Tuymans.>

« L'eternità » (2021), di Luc Tuymans.

« L’eternità » (2021), di Luc Tuymans. COLLEZIONE PINAULT/COURTESY DELL’ARTISTA E DAVID ZWIRNER/LUC TUYMANS STUDIO

Cancellazione dell’umanità

Ce ne sono altri altrettanto notevoli e che sollevano non meno interrogativi. Si riferiscono senza dubbio al tema atomico? Per alcuni è certo, dato che l’artista vi ha messo così tanta enfasi. Per la sua tela Uranio e Atomica Melancholica Idillio dal 1945, Salvador Dalì accumula simboli. Non mancano né l’attentatore, né le bombe, né i pallidi spettri su sfondo nero. Nessuna ambiguità e nessuna eccitazione: un laborioso esercizio di stile. Là Composizione nucleare (1952), di Gianni Dova, è infinitamente più espressivo, sebbene Dova sia meno conosciuto di Dalì e delle sue tele quasi astratte e non narrative. Anche così, il suo titolo è autoesplicativo. Non è questo il caso Legge dell’Aquila (1951), d’Asger Jorn, de L’impensabile (1958), di Roberto Matta, o di Spazio Luce (1960), di Francesco Lo Savio, ma non dubitiamo per un attimo che siano in tema, ciascuno a modo suo, e che i loro autori proiettino nella pittura l’angoscia della cancellazione dell’umanità.

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