“Impegnato sotto l’uniforme dell’esercito francese in Indocina e Algeria, tribuno del popolo all’Assemblea nazionale (…) ha sempre servito la Francia”, scrive Jordan Bardella all’annuncio della morte dell’ex presidente del Fronte Nazionale. Mohamed Moulay, testimone dell’assassinio di suo padre il 2 marzo 1957 nella casbah di Algeri da parte del giovane tenente della 1È REP Jean-Marie Le Pen, potrebbe rispondergli.
Anche se quest’ultimo non ammise mai questo delitto, testimoniò comunque per lui il suo pugnale, marchiato con il suo nome sul fodero, lasciato lì, ritrovato ed esposto 46 anni dopo davanti ai giudici. Sebbene non abbia mai ammesso formalmente di aver torturato, Le Pen, d’altro canto, non ha mai negato un impegno al servizio dell’Algeria francese posta al centro della sua vita e della sua lotta, fonte di un culto della violenza e di un razzismo atavico. Chiedendosi nel novembre 1962 sul giornale Combattere cosa fosse la tortura, non vedeva quindi nelle “percosse, nel gegene e nella vasca da bagno (…) nessuna mutilazione, nulla che leda l’integrità” né condannava coloro che le praticavano.
La matrice del suo impegno
Gli anni algerini costituirono quindi la matrice del suo viaggio, una brutale esperienza fondativa nel percorso di formazione del politico di estrema destra. Il soldato centurione delle guerre coloniali parte per l’Algeria perché non ha potuto combattere in tempo in Indocina. La guerra vide l’attivista studentesco impegnarsi in politica. Eletto nel movimento poujadista in un contesto di destabilizzazione della repubblica, il giovane deputato si arruolò nell’ottobre 1956. Ufficiale durante la battaglia di Algeri nel gennaio 1957, praticò la tortura. Già nel giugno 1962 lo storico Pierre Vidal-Naquet pubblicò in Verità-Libertà un rapporto del commissario di polizia Gilles di stanza ad Algeri con la denuncia contro il tenente Jean-Marie Le Pen del rapimento del 19enne Abdenour Yahiaoui da parte del 1È REP l’8 marzo 1957.
L’eredità algerina ha comandato la sua successiva azione politica. Jean-Marie Le Pen non ha mai smesso di rimpiangere l’Algeria francese, “la stronzata del 1962”, ha detto. Uomo di Tixier-Vignancourt, ex avvocato candidato dell’OAS alle elezioni presidenziali del 1965, guidò la campagna. Sette anni dopo, la scommessa di un “Fronte nazionale per l’unità francese” si basava in gran parte sulla scelta di radunare tutte le correnti disperse dell’estrema destra sulla base dell’Algeria francese. Una persistente “nostalgia” ha infatti costituito un ingranaggio essenziale nel pensiero del FN. Circondato da una schiera di ex membri dell’OAS, l’uomo conservava un odio duraturo nei confronti degli algerini che risaliva alla guerra d’Algeria, rimproverando loro il persistente rifiuto di essere francesi.
Lontano dal dettaglio
La tortura non è stata quindi un punto di dettaglio nella storia di Jean-Marie Le Pen anche se il tempo della giustizia non è né quello della memoria né quello degli storici. Beneficiando dell’amnistia votata nel marzo 1962, portò sistematicamente il caso in tribunale quando gli storici hanno portato avanti l’indagine fino ad oggi (Fabrice Riceputi, Le Pen e la tortura. Algeri 1957, la storia contro l’oblioIl passeggero illegale, 2024). Portato ad ammettere una pratica ufficialmente illegale in Francia dal 1954 al 1962, Le Pen non ammise mai di essersi torturato, arrivando addirittura a smentire l’intervista in cui affermò nel novembre 1962 di non avere “niente da nascondere”. [car] abbiamo torturato perché dovevamo farlo”.
Senza dubbio ansioso di gettare un velo di rispettabilità all’alba di una carriera politica, J.-M. Le Pen avviò tardivamente negli anni ’80 cause per diffamazione contro tutti coloro che sostenevano di aver torturato, l’ex primo ministro Michel Rocard fu infine assolto in appello nel 1997 Anatra incatenata intitolato dal 1985 su “Mr. senza imbarazzo, facile da torturare”.
Senza mai aver smentito l’utilità stessa della tortura, ne parlò nuovamente nel 1984 durante Il momento della veritàil primo programma pubblico generale al quale è stato invitato, gli “obblighi necessari imposti dalla gerarchia militare e politica”. Bisognerà quindi attendere gli anni 2000 e la causa intentata dal giornale Il mondo vedere pubblicamente provata la tortura dopo la lunga e approfondita indagine su Florence Beaugé, assolta nel 2003 davanti ai 17e camera d’accusa.
Testimonianze e tracce
Sì, Jean-Marie Le Pen era davvero un torturatore. Se gli archivi a volte tacciono, restano comunque testimonianze e tracce, sia degli algerini vittime ma anche di persone vicine a Jean-Marie Le Pen e compagni di tortura, come J.-M. Demarquet, un altro poujadista eletto, impegnato nel 1956.
Così, da circa vent’anni, le inchieste giornalistiche e il lavoro degli storici (Raphaëlle Branche, Sylvie Thénault, Alain Ruscio, ecc.), hanno messo in luce i meccanismi della tortura, riportando alla luce una verità che Le Pen aveva riconosciuto anche durante la guerra algerina. guerra.
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