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Da Panama alla Groenlandia. Lo strano shopping di Trump

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Quando il presidente eletto degli Stati Uniti dice che prendere il controllo della Groenlandia (che appartiene alla Danimarca e gode di ampia autonomia) è «una necessità assoluta», che potrebbe chiedere a Panama di restituire agli Usa «per intero e senza fare domande» la sovranità sul Canale e last but not least, come dicono dalle sue parti, che trasformare il Canada nel 51° Stato a stelle e strisce «è un’ottima idea», il desiderio di non prenderlo sul serio è molto forte. Per dirla alla romana, la prima ovvia reazione a queste sparate è «ma Donald Trump c’è o ci fa?». Ma anche: è così che intende rifare grande l’America? Territorialmente, alla Putin?

Il vero guaio è che Trump è così per davvero. Il suo stile in politica estera è quello di un elefante in cristalleria, con un gusto particolare per l’ostentazione di un certo bullismo anche nei confronti degli alleati degli Stati Uniti. Questo viene solitamente spiegato col fatto che Trump è un businessman che non concepisce situazioni win-win, e meno che mai dei compromessi. Per un tipo come lui, l’alleato è solo un concorrente mascherato, da trattare facendogli sentire il proprio peso superiore: in altre parole, dall’alto in basso. Ed ecco quindi le minacce di dazi a tappeto sulle merci europee, e le pretese di innalzare fino alla soglia (volutamente eccessiva) del 5% del Pil le spese militari dei Paesi membri della Nato per godere del privilegio di «essere difesi dagli Stati Uniti» (come se gli alleati non avessero dato il loro sangue su richiesta americana in Afghanistan e in Irak), pena il ritiro degli Usa nella loro fortezza isolazionista.

Ma c’è dell’altro, soprattutto l’aspetto forse più preoccupante del suo modus operandi: quel dilettantismo in campo politico e diplomatico che lo spinge a farsi beffe di molte convenzioni e a non comprendere i danni che produce un troppo ostentato «dire le cose in faccia». Questo dilettantismo spiega le tante scelte sconcertanti in posti chiave della sua futura amministrazione dal bislacco No Vax Robert Kennedy junior alla Sanità al «demolitore» Kash Patel all’Fbi, solo per fare due esempi, senza dimenticare un Elon Musk lasciato libero di esternare senza controllo e i toni fuori luogo usati con gli alleati e non solo.

E qui torniamo alla Groenlandia e al resto. Per la gigantesca isola ghiacciata a Nord-Est di quel Canada la cui sovranità pure gli pare una bizzarria, Trump ha un’evidente fissazione: già durante la sua prima presidenza aveva chiesto ai danesi di vendergliela, ricevendone un netto rifiuto e annullando per questo una visita di Stato a Copenaghen. Convinto che gli si debba sempre dire di sì, è tornato alla carica ieri, in occasione della nomina del nuovo ambasciatore Usa in Danimarca: «Ai fini della sicurezza nazionale e della libertà in tutto il mondo ha scritto sul social Truth gli Stati Uniti ritengono che la proprietà e il controllo della Groenlandia siano una necessità assoluta». Il premier groenlandese Egede gli ha prontamente (e ovviamente) ricordato che «l’isola è nostra, non siamo in vendita e non lo saremo mai».

Un simile tono prepotente Trump lo ha riservato anche a Panama, lamentando «un trattamento ingiusto per le navi americane, con tariffe ridicole», oltre a una crescente influenza cinese attorno al Canale che fino al 2000 Washington aveva controllato direttamente.

Il presidente panamense Mulino ha respinto ogni ricatto, affermando però di sperare in un «rapporto buono e rispettoso» con Trump alla Casa Bianca. La risposta social del tycoon («Vedremo!») lascia poche speranze in merito.

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