Fin dall'inizio era improbabile. E in realtà non è andato oltre. Kamala Harris, una donna nera originaria dell'Asia meridionale che tre mesi fa non era in corsa, che doveva succedere a un uomo intrappolato nella sua età e che si è ritrovata a condurre una campagna improvvisata contro un candidato condannato davanti ai tribunali, insomma la sfida era sproporzionata.
Il suo rivale ha violato tutte le norme della correttezza politica, ha smentito le vecchie certezze della politica americana secondo cui dobbiamo cercare di essere il più unificanti possibile, sicuramente il meno ripugnante per gli elettori moderati.
Donald Trump ha vinto queste elezioni, suo malgrado. Fino all'ultimo giorno della campagna si è mostrato scortese, volgare, aggressivo e orgoglioso di ciò. Se gli elettori non lo hanno punito è perché l'alternativa li ha ispirati ancora meno. Deve essere fatto.
Kamala Harris ha pagato il prezzo della sua banale, se non insignificante, vicepresidenza. Era stata una pessima candidata per la nomination democratica nel 2020; il suo partito avrebbe dovuto pensarci due volte prima di sostenerlo. L'estrema prudenza della sua campagna e la vaghezza di ciò che proponeva ai suoi connazionali sono bastate a tenere lontani gli ultimi indecisi.
Gli elettori volevano il cambiamento, qualcos’altro, qualunque cosa. Hanno preferito le sciocchezze che Trump ha offerto alla gelatina messa sul tavolo da Harris.
Non attribuisco tutta la colpa alle sue spalle. Ha anche corso questa corsa per la presidenza con la palla al piede dell’impopolare amministrazione Biden da un piede e quella del programma democratico dall’altro.
Il partito di Bill Clinton e Barack Obama è disconnesso da ciò che gli americani sono diventati e vogliono. Avranno quattro anni, i democratici, per pensarci.
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