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ciò che siamo” di Marie-Josée Bastien al Théâtre du Trident – ​​​​Urban Bible

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legli interpreta “Yahndawa’: what we are” dell’autrice, regista e attrice Marie-Josée Bastien rivisita il fiume Atiawenrahk (il fiume Saint-Charles) come simbolo del legame tra la comunità indigena di Wendake e la città del Quebec, in tal modo incarnando la doppia identità quebecchese e wendat del designer. Presentato in collaborazione con il Théâtre Stratégie Parking e Productions Menuentakuan, quest’opera può essere scoperta in questi giorni al Théâtre du Trident e molto presto al Théâtre Aux Écuries.

Sulla linea sottile tra presentazione orale e autofiction

Questo spettacolo, strutturato in cinque segmenti che rappresentano ciascuno un antenato dell’autore, inizia con un significativo incontro tra Agnolien, attivista per la protezione del fiume Saint-Charles, e il suo discendente Ludger Bastien, primo indigeno del Quebec nel 1924, rappresentato da Charles Bender, direttore artistico di Menuentakuan Productions.

Questo incontro faccia a faccia tra generazioni: un attivista ambientale e a leader politica vittoriosa della comunità Wendake – ha un forte potenziale drammatico. Tuttavia, la narrazione di Marie-Josée Bastien adotta un tono didascalico, quasi dando un aspetto documentaristico alla storia di Ludger Bastien.

Sebbene l’esposizione storica sia accattivante, tende a mettere in ombra la tensione essenziale della scena, che risiede nel ricordare che ogni scelta individuale, nella cultura aborigena, lascia segni duraturi per sette generazioni a venire.

Foto: Stéphane Bourgeois

Il segmento successivo esplora il viaggio di Armand, interpretato con intensità da Marco Poulin. Quest’ultimo si arruola nell’esercito durante la seconda guerra mondiale, combattendo per un paese che disprezza la sua gente. Segnata da esperienze di umiliazione e stigmate coloniali, la sua vita si concluse tragicamente con un salto nella cascata Kabir-Kouba, alta ventotto metri, sulle rive del fiume Saint-Charles.

Spicca qui la performance di Marco Poulin, che ricorda un passaggio toccante di James Baldwin, autore e attivista per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti, che descrive suo nonno che viveva sotto le leggi segregazioniste del Sud: “È stato sconfitto molto prima di morire, perché nel profondo credeva davvero a quello che i bianchi dicevano di lui”.

Questa citazione risuona con forza nel destino di Armand, sconfitto da un sistema oppressivo.

Sul posto delle donne nelle lotte indigene

Il terzo segmento, il più lungo, ripercorre la storia di Adèle, la figlia di Armand, interpretata da Andrée Lévesque Sioui. Dopo il matrimonio con Pierre, Adèle lascia la riserva, ma perde poi il suo status indiano, cosa che le impedisce di tornare nella sua comunità nonostante le esigenze degli anni della Rivoluzione Tranquilla.

Sua figlia Elizabeth, interpretata dalla stessa Marie-Josée Bastien, torna da Whitehorse per prendersi cura di sua madre affetta da Alzheimer. In un colpo di scena particolarmente toccante, Adèle, assistita da un membro dei Wendake, ritrova la sua lingua madre mentre perde gradualmente l’orientamento. Morì il 5 luglio 1985, giorno simbolico in cui fu abrogata la legge che annullava la perdita dello status delle donne indigene, restituendole finalmente l’appartenenza alla comunità.

La toccante interpretazione di Andrée Lévesque Sioui affetto da Alzheimer brilla particolarmente quando Adèle diventa di nuovo vulnerabile insieme a sua figlia nel bel mezzo di un momento straziante.

Foto: Stéphane Bourgeois

Anche se si potrebbe credere che lo spettacolo sia finito dopo la storia di Adèle, lo spettacolo riserva comunque un segmento finale incentrato su Yandcha, la figlia di Elizabeth, interpretata da Océane Kitura Bohémier-Tootoo. Giovane influencer indigena, quest’ultima torna a Wendake per onorare la memoria di sua nonna Adèle.

Dopo una discussione con sua madre e l’incoraggiamento a riconnettersi con le sue origini, ha deciso di partecipare al ballo delle campane al powwow l’anno successivo. Questo rito, intriso di spiritualità, porta guarigione nella cultura indigena: ogni giorno, per un anno, viene cucita una campana su un vestito, ciascuna accompagnata da una preghiera.

Questa cerimonia simboleggia un ritorno alle radici e un processo di riconciliazione ed eredità.

Quando ho lasciato la stanza, mi è sembrato che questa scena avrebbe potuto essere un’opera a sé stante, ma si adatta perfettamente al resto del pezzo, concludendo con una nota di speranza. Yandcha, interpretato con finezza da Océane Kitura Bohémier-Tootoo, rappresenta la giovane generazione indigena che si sta riconnettendo con la propria identità e tradizioni.

Questa conclusione, evocando la guarigione delle ferite generazionali, offre un vibrante tributo alla resilienza degli indigeni mentre istruisce il pubblico in una danza affascinante e significativa.

Foto: Stéphane Bourgeois

Più teatro indigeno in Quebec, per favore!

Insomma, nonostante a volte sia un po’ troppo didascalico, lo spettacolo merita sicuramente di essere visto. Fosse anche solo per la performance degli attori, o per il semplice fatto di aprirsi al teatro indigeno, una prospettiva culturale così raramente presente sui nostri palcoscenici!

Per i nostri lettori di Montreal, il mio mignolo me lo dice Yahndawa’: cosa siamo sarà presentato al Théâtre aux Écuries dal 4 all’8 dicembre. Vai a prendere i tuoi biglietti finché puoi!

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