“Vorrei che fosse una caricatura. E invece no, è il mio modo di vivere il calcio, in modo eccessivo, a volte”, ha sospirato martedì il tecnico, interrogato sulla sua fama di allenatore dal temperamento vulcanico.
Il suo carattere, abbinato al suo look da ragazzaccio, alla testa rasata e alle braccia ricoperte di tatuaggi, lo ha reso famoso quasi quanto la qualità del calcio che sostiene.
Originario di Casilda, non lontano da Rosario, la terza città del Paese, una delle prime fotografie iconiche di “Sampa” lo raffigurò, alla fine del 1995, con maglietta nera e occhiali da sole, appollaiato sulla cima di un albero mentre impartiva istruzioni alla squadra locale da lui allenata, dopo essere stato escluso dal bordo campo.
Sul campo, questa passione si traduce in grandi aspettative da parte dei giocatori da cui si aspetta un “coinvolgimento assoluto”, come ha detto ancora martedì.
Privato della carriera professionale a causa degli infortuni, disprezza questi calciatori “impiegati” che semplicemente “aspetta la fine dell’allenamento per lavarsi e tornare a casa”, come ha descritto in un’intervista al quotidiano argentino La Nacion nel 2016.
“Un amico, non un allenatore” per Nasri
Con alcuni, soprattutto con i più creativi, può però anche sviluppare un rapporto molto stretto, addirittura di complicità.
“Era un amico, non un allenatore (…) Se volessi andare a trovare la mia famiglia in un fine settimana in cui non stavo giocando, Sampaoli mi ha detto che si sarebbe preso cura del mio cane“, ha detto nel maggio 2020 Samir Nasri, che ha allenato a Siviglia.
In termini di gioco, la sua filosofia basata sul pressing e sull’assunzione di rischi individuali deve molto a Marcelo Bielsa, il suo presunto modello.
“Ho passato almeno 14 ore al giorno a pensare a lui, per guardare i video delle partite delle sue squadre. Registravo perfino le sue conferenze stampa e le ascoltavo mentre faceva jogging», raccontò nel 2011 al quotidiano cileno El Mercurio.
I due condividono anche un curriculum di avventurieri che si sovrappone alla selezione argentina o al Marsiglia, dove entrambi si sono allenati.
“Non viviamo celebrando le vittorie, ma superando le sconfitte”, Sampaoli si fece tatuare il braccio, prendendo in prestito questa frase da Ernesto “Che” Guevara, altro argentino radicale e giramondo.
Ha forgiato i suoi principi durante periodi più o meno riusciti nei club peruviani, ecuadoriani e cileni, prima di un primo significativo successo vincendo la Copa Sudamericanail C3 sudamericano, nel 2011 con l’Universidad de Chile.
Un fallimento con l’Argentina
Gli abbiamo poi affidato, nel 2012, la selezione nazionale con cui elimina la Spagnacampione del mondo in carica, nella fase a gironi della Coppa del Mondo 2014 in Brasile, prima di cadere agli ottavi contro la nazione ospitante.
L’anno successivo fece ancora meglio, offrendo al Cile la prima Copa America la sua storia di aver battuto in finale la squadra del suo paese natale.
Dopo questa parentesi incantata durata poco più di tre anni e un primo fallimento in Europa, con il Sevilla FC, prende l’iniziativa l’Albiceleste nell’estate del 2017.
Il suo regno durerà quindici partite, fino all’eliminazione contro la Francia agli ottavi del Mondiale 2018 (4-3), con un girone al quale non ha mai ottenuto l’iscrizione.
E se ancora nel febbraio 2021 inveisse contro il calcio diventato “troppo instabile” con “gli allenatori (che) durano pochissimo“, a volte causava questo caos.
Nel 2002, un anno e mezzo dopo aver preso il comando del Marsiglia in fondo all’onda e dopo averlo nominato secondo dietro all’intoccabile Paris SG, se ne va col botto perché la dirigenza non sostiene la sua ambizione di sloggiare il club dalla capitale.
Lo ammette l’allenatore che a volte è più ambizioso dei suoi stessi leadere riconosce che a volte deve ancora imparare a frenare il suo ardore: “Il mio livello di esigenze è superiore alle ambizioni dei club della squadra di cui dirigo”, ammette, “cercherò di migliorare da questo punto di vista”.