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“La vita è più importante di ciò che facciamo”, afferma l’attore e regista Reda Kateb, ospite d’onore al Cinemed

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Ospite d’onore del 46° Festival del Cinema Mediterraneo di Montpellier, Reda Kateb è senza dubbio l’attore francese più cool ed elegante di oggi, e nientemeno che simpatico! Ripercorre la sua impressionante carriera di attore prima di presentare giovedì 24 ottobre in anteprima il suo (eccellente) primo lungometraggio da regista, “Sur un fil”.

Che sentimento ti ispira essere l’ospite d’onore di un festival dedicato alla cinematografia mediterranea?

Ovviamente è gratificante essere ospite di quello che mi sembra un festival molto bello. Cinemed mi aveva già invitato più volte ma non avevo potuto rendermi disponibile in quelle occasioni. Quest’anno è stato possibile. Sono molto felice che questo corrisponda all’uscita del mio film Su un filo che potrò quindi mostrare in questo festival.

Un incontro come questo è un’opportunità per fare un passo avanti nella tua carriera. È questo un tipo di esercizio che fai?

Pietre miliari? No, tranne quando rispondo alle domande, capita che mi venga chiesto di fare questo esercizio. Ma naturalmente sono più propenso a guardare avanti, lo ammetto, che a fare il punto.

Cinemed proietta dieci dei tuoi film sui trentasei in cui hai recitato. Trentasei film in quindici anni (senza contare le serie)! Lavori come un matto, vero?

Non sapevo di averne fatti trentasei…. Lavoro molto ma allo stesso tempo non scatto necessariamente tutto il tempo. Ci sono periodi in cui ho diversi progetti interessanti che realizzo uno dopo l’altro. Ma ci sono anche altri periodi in cui mi rifiuto molto e in cui vado in tournée un po’ meno. Ma, nel complesso, è vero che ho avuto un buon passo negli ultimi anni? (ride)

Come scegli i tuoi progetti?

Un po’ per istinto. Spesso, leggendo la sceneggiatura, dopo poche pagine, penso se vorrò o meno andarci. Ovviamente c’è il personaggio che mi viene proposto: è qualcosa che ho appena interpretato? Sembra che qualcosa che ho già in mente arriverà presto? C’è anche la qualità dei dialoghi, a questo sto molto attento: sembra come nella vita o siamo di fronte a dialoghi troppo scritti che secondo me non suonano bene? Questo è il primo passo, leggere la sceneggiatura. Poi, se la sceneggiatura mi piace, c’è l’incontro con il regista: devo avere fiducia nelle persone con cui lavoro. Ho bisogno di sentirmi partecipe nel raccontare una storia, proprio come volevo che lo fossero tutti gli attori che hanno recitato nel mio film. Non mi interessano gli attori burattini costretti a mettere insieme la loro sceneggiatura. Ciò che mi affascina è il modo in cui porti la vita nella fotocamera.

Proprio se i personaggi che hai interpretato, anche se molto eterogenei, hanno qualcosa in comune è l’umanità che infondi loro sempre…

Oh bene, grazie. Non so davvero cosa dire a questo proposito! Diciamo che se il cinema ha dei superpoteri è soprattutto quello di svelare l’umanità delle persone, far emergere le emozioni… Proprio come il corridoio di un ospedale. È un luogo dove le persone si rivelano al di là della loro professione, della loro postura, di ciò che vorrebbero mostrare di sé agli altri, in una forma di esercizio di verità che mi tocca. Perché al di là delle nostre differenze, ci sono ancora cose molto forti che ci legano gli uni agli altri e che mi stanno a cuore.

Ciò che è simile a quello che dici è la tua capacità davvero unica di saper suonare un genio della chitarra così come un medico d’urgenza, un educatore, un delinquente algerino… Puoi suonare tutto!

Non so se potrò interpretare tutto, ma quello che è certo è che prima volevo fare l’attore per travestirmi. Quindi sicuramente non vorrei passare da quello a qualcosa che mi ridurrebbe a pochi lavori simili. Ogni film per me è un fantastico passaporto non solo per travestirmi ma anche per scoprire mondi, oltre che attraverso il turismo. Potrò essere adottato dal mondo zingaro quando lo farò Django proprio come fanno i sommergibilisti quando lo faccio io Il canto del lupo o da associazioni che lavorano con i giovani autistici in Eccezionale. Sfrutto la possibilità che mi ha dato di fare cinema per scoprire altri mondi e farli conoscere anche ad altri.

Credi che il fatto di essersi rivelato tardi (rispetto agli standard, diciamo, che valgono quello che valgono), di aver avuto altre vite prima, per così dire, abbia aiutato l’attore che sei?

Sì, penso di sì. In ogni caso, sono sensibile agli attori del cinema che portano molta più esperienza di vita rispetto alle lezioni di teatro. La tecnica molto pulita mi colpisce poco. D’altra parte, avere persone vere, esseri umani, che sentiamo che a volte si trovano a contatto con la vita, come anch’io ci sono stato, questo mi tocca. Penso inoltre che le persone si identifichino in modo diverso anche quando viene loro dato qualcosa in cui c’è più verità. Sì, in definitiva ringrazio la vita per aver avuto un po’ di successo intorno ai trent’anni in un periodo in cui ero ancora abbastanza sviluppato come persona, dove potevo anche orientarmi con un po’ di lucidità.

Rimaniamo nell’idea di profondità umana…

Sì, in ogni caso mi sono sempre detto che la vita è più importante di quello che facciamo. Devi avere questa umiltà, trovo, come artista, per cercare di essere allo stesso livello della vita in ciò che rappresenti. La sfida del mio film, in particolare, è stata quella di provare a dare vita a questo servizio ospedaliero con verità. Avevo ancora un po’ di vertigine prima del primo giorno di riprese, mi sono detto “Ma chi sono io per coreografare un servizio ospedaliero? Non ne so molto, alla fine”. Quindi ho fatto molto affidamento sulle infermiere che erano lì, sui clown, su un sacco di persone per cercare di avere l’ambientazione e il terreno quanto più accurati possibile per poi poter raccontare una finzione e una storia.

Prima di parlare del tuo lungometraggio, dobbiamo parlare di “Pitchoune”, il cortometraggio che hai realizzato nel 2015, anno in cui hai pubblicato sei film, e non ultimo!

Sì, è stato un anno davvero bello! In realtà, ero stato un clown animato. Per le feste di compleanno dei bambini ma anche per lo show dei camper. Ricordo ancora come mi guardavano nella sala mensa, con le mie grandi pantofole, il mio travestimento: alcuni con sguardo gentile, altri con pietà, altri ancora con disprezzo. E c’è stato questo momento in cui tra due magazzini della mostra ho fumato una sigaretta e mi sono detto che un giorno avrei realizzato un cortometraggio di questa esperienza. Nel 2015 ho mantenuto la promessa che avevo fatto a me stessa. È stato anche un modo per dire addio a questo capitolo della mia vita in un momento in cui sentivo che stava cambiando per me. È sul set del film Ippocrate che ho abbozzato l’idea del mio cortometraggio con Philippe Rebbot a un produttore e lei mi ha detto che lo avrei prodotto per te. È stato il suo gesto concreto a spingermi a fare il grande passo.

Ma te ne sono voluti nove per passare dal cortometraggio al lungometraggio…

Non avevo niente da dire che mi importasse davvero. Inoltre non voglio allungare il mio corto in lungo: il gesto sarebbe stato lento, quello che avevo da dire durò ventidue minuti, punto. E poi mi sono divertito come attore in tantissime cose molto diverse. Non avevo quella frustrazione dell’attore che scopre di non esprimersi abbastanza anche se ha molte cose da dire. Ma quando il mio produttore Robin Boespflug-Vonier mi ha inviato il libro Il diario del dottor Giraffa di Caroline Simonds, fondatrice dell’associazione Le Rire Médecin, mi ha colpito.

Cosa ti ha detto che in questa testimonianza ci fosse un film sui clown dell’ospedale?

Già durante la lettura vedevo le immagini uscire dalle pagine. È scritto come un diario con grande precisione, semplicità, con questa carica emotiva che fa sì che nella stessa pagina si possa avere qualcosa di solare e qualcosa di molto duro, senza pathos né morbosità. Ho ritrovato un luogo che è quello dell’infanzia, dalla prospettiva del bambino che è sempre nel momento presente, e ho scoperto il mestiere del clown ospedaliero di cui ignoravo la professionalità e il rigore. Ho avuto la forte intuizione che questo particolare luogo al crocevia tra forma artistica e cura sarebbe stato il luogo in cui avrei scritto la mia storia.

C’è una sorta di fratellanza di spirito con il cinema di Toledano e Nakache…

Una fraternità totalmente accettata! Potremmo anche dire che esiste una connessione tra Eccezionale e il mio film, soprattutto da quando ho lavorato con Dorian Rigal-Ansous, che è il montatore di molti film di Toledano-Nakache. E’ dopo Eccezionaledopo aver scoperto il mondo delle associazioni che lavorano con i ragazzi autistici, ho cominciato ad interessarmi a quello dei clown. Ho voluto prolungare questo gesto cinematografico che mette in risalto eroi molto discreti.

Essendo come loro “Su un filo” tra tragedia e commedia, umorismo e durezza ma senza dolorismo…

È un tono che è venuto naturale, attraverso le immersioni nei reparti ospedalieri e le interazioni. Non me ne sono andato con alcuna intenzione se non quella di portare un po’ di vita nel film. In ogni scena, l’obiettivo non era inscatolare un dialogo scritto ma chiedersi cosa sta realmente accadendo in questo momento, quale riga di testo possiamo eliminare, a beneficio di uno sguardo, di un gesto e di improvvisare, un bel po’ un po’ in effetti. In breve, si trattava di adattare i dispositivi cinematografici al soggetto, allineando questa grande macchina con le cose più belle che volevamo trovare…

Ci sono più livelli di lettura di “Sur un fil” che è anche, ci sembra, una riflessione sul gesto artistico.

Questo è ciò che mi ha affascinato di questo mondo. C’è qualcosa di rituale nella stanza d’ospedale dove operano questi clown: lì ci sono due clown per un bambino malato, è l’unico posto dove ci sono più attori che spettatori, e lo spettatore non è spettatore perché appena quando il bambino suggerisce qualcosa, i clown lo prendono e ci improvvisano. Insomma, nella stanza accade qualcosa che ha valore solo per le persone che la condividono e che non è destinato ad essere applaudito, ammirato o riconosciuto. Per me sì, è un po’ la pura essenza del gesto artistico che ha valore per quello che dà, e non per quello che riporta.

Con questo film, che non immaginiamo non possa funzionare, apri un nuovo capitolo della tua carriera? Già un altro progetto cinematografico?

Non ho intenzione di produrla, ma se un giorno un’altra storia mi starà a cuore, ci proverò. Ma per ora torno alla mia vita di attore. Il mio prossimo progetto è uno spettacolo teatrale, non salgo sul palco da diciassette anni quindi è una nuova sfida. È Attraverso i villaggidi Peter Handke, diretto da Sébastien Kheroufi (che adoro): lo rappresenteremo a dicembre al Festival d’Autunno al Centre Pompidou, e anche un po’ di tournée. L’ho fatto anche l’anno scorso Quelli silenziosi, girato tra Danimarca e Svezia, del giovane regista danese Frederik Louis Hviid, che siamo andati a difendere a Toronto; un film sulla più grande rapina bancaria della storia in Danimarca che uscirà in Francia il 19 marzo. Ho anche girato una commedia diretta e diretta da Jean-Pascal Zadi, su una spedizione spaziale africana; la mia prima vera commedia!

Il film “Sur le fil” diretto da Reda Kateb sarà presentato in anteprima giovedì 24 ottobre alle 13,30 al cinema Diagonal di Montpellier. Reda Kateb incontrerà il pubblico del Cinemed lo stesso giorno, alle 18, al Centro Rabelais.

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