Non diremo che un personaggio dall’aura così potente fosse stato finora evitato dalla 7a Arte. Innanzitutto perché il regista americano Richard Fleischer le aveva già dedicato un film (non molto memorabile) nel 1976, poi perché la silhouette di Sarah Bernhardt è apparsa regolarmente sullo sfondo di numerosi film e serie televisive. Doveva ancora essere realizzato un altro film su questa icona culturale senza precedenti? C’era una nuova prospettiva favorevole a creare un’eco con i nostri tempi? È stato abbastanza facile rispondere di sì, perché qui tutto si basa sulle affermazioni anticonformiste di Bernhardt, che elogia la sua sessualità liberata, la sua presunta eccentricità, la sua lotta contro l’antisemitismo (ha sostenuto Emile Zola nella sua vigorosa difesa di Alfred Dreyfus) e il suo rifiuto assoluto della pena di morte. Basti dire, spunti tematici forti, inevitabilmente idonei a sollevare interrogativi sullo stato di una Francia oggi sempre più segnata dal rimbalzo di idee conservatrici e nauseanti. Detto questo, nella misura in cui il film biografico è stato caratterizzato per troppo tempo dalla sua povertà e dalla sua assenza di punti di vista, ci aspettavamo che Guillaume Nicloux, leader francese della non-etichettatura perpetua e vero e proprio capo ricercatore di percorsi di incroci narrativi, può rivelare in modo intelligente i codici dall’interno. Tuttavia, venendo da un regista unico e inclassificabile come lui, il risultato è una vera sorpresa. Proprio perché non sorprende.
Anche se vorremmo far passare una narrazione decostruita come prova di audacia, questo è solo un luogo comune specifico del biopic, così come lodare la bellezza dell’inquadratura e della fotografia (qui di Yves Cape) e la qualità del lavoro svolto quello sulla ricostruzione dell’epoca (scene, costumi, trucco, ecc.) è un argomento che non ha più molto peso. Più che mai, è attraverso i pregiudizi della messa in scena, della sovversione estetica e della struttura della sceneggiatura che è possibile individuare l’angolo, il punto di vista, in breve l’audacia capace di vincere il pezzo. Diciamolo subito, sono i titoli di testa a concedersi esclusivamente questo ruolo catturando l’agonia di Bernhardt nel suo letto, attraverso una teatralità della recitazione e della scenografia che viene amplificata fino a far udire gli applausi del pubblico. telecamera. Momento brillante e inquietante, che confonde i due lati di Bernhardt (la sua personalità eccentrica e la sua recitazione eccessiva) e l’identità del suo stesso entourage nello stesso gesto cinematografico. Il resto, ahimè, ci riporta indietro di quaranta piani semplicemente snodando il racconto medio di un breve periodo della vita di Bernhardt, basato su conflitti sentimentali ripetitivi e una cascata di personaggi famosi (Guitry, Rostand, Freud, Zola…) da assaporare come una parata delle figurine Panini.
Nicloux fa qui bene la scelta di trattare Bernhardt come un centro di gravità attorno al quale vorticano costantemente gli elettroni, a volte passivi, a volte decorativi (solo Laurent Lafitte riesce qui a distinguersi in un ruolo allo stesso tempo fragile e commovente), ma difficilmente riesce a farlo. evitare la trappola che un simile argomento di studio gli ha teso. Scavare nella donna Sarah secondo la leggenda Bernhardt significa inevitabilmente confrontarsi di petto con la triplice patina della sua fragilità, vale a dire una personalità ultranarcisistica, un carattere profondamente ciclotimico e, più in generale, una tendenza alla pomposità che abbiamo il diritto di considerare. lo trovo noioso. In fondo non così lontano da quello di Gloria Swanson in”Viale del Crepuscolo“, la performance di Sandrine Kiberlain è come l’esercizio di un funambolo, che tenta senza sosta di fare rumorose piroette su un filo che si muove troppo e rischia di rompersi. L’attrice di “fermo 9 mesi“, che sappiamo essere capace di elevarsi al livello dei più grandi, si è certamente abbandonata a questo ruolo da kamikaze, riproducendo fedelmente le emozioni tempestose e l’arte della declamazione fuori dal comune. Considereremo però che non è riuscita toccare “esattezza in eccesso”, se non altro a causa di scene a priori prive di tensione che si sono trasformate in esibizione cacofonica, con troppo voce forzata e anima poco rinforzata – e questo rovina rapidamente l’atmosfera. Come danno collaterale di una recitazione così sinusoidale, è inevitabilmente l’istrionismo che vira verso il Re acuto. Alcuni diranno che il rispetto per il personaggio lo giustifica questo soprattutto riporta il film biografico alla sua funzione più debole: trascrivere senza cercare di trascendere.
Guillaume GasInvia un messaggio alla redazione