CULTURA FRANCIA – SU RICHIESTA – PODCAST
“È la storia di quelle ultime parole scarabocchiate in fretta davanti al silenzio e al nulla, gettate dal finestrino di un vagone bestiame, di un treno della morte, lasciate nelle baracche di un campo, di un luogo di raggruppamento o di internamento, date in la fretta e la confusione dei rastrellamenti e degli arresti a uno sconosciuto, a un poliziotto, a un ferroviere, a un postino, a un visitatore della Croce Rossa o a un semplice passante. » Ed è proprio la storia, commovente, di queste ultime parole che, dopo aver raggiunto i loro destinatari, dopo aver attraversato il tempo, sono ormai giunte nei luoghi più ufficiali della memoria, che racconta Alain Lewkowicz.
Nipote di deportati, una donna, volontaria al Memoriale della Shoah, racconta di aver portato lì diversi documenti: una tessera annonaria, alcune foto, documenti che mostrano come il governo francese, durante la guerra e fino al 1945, cercò i suoi nonni per spogliarli loro della nazionalità francese “per una sola ragione: perché erano ebrei”, e, datata 24 aprile 1945, una cartolina di sua zia, morta di tifo nel campo di Bergen-Belsen. “Questa carta è l’ultimo collegamento”ha detto.
“Connessione con i fantasmi”
Per Karen Taieb, responsabile degli archivi del Memoriale della Shoah, “L’ultima lettera è l’ultima traccia di vita. Una prova dell’esistenza di una persona e di qualcosa che è stato scritto di suo pugno: è quindi un documento ancora più commovente”. Queste parole erano scritte su un pezzo di carta, sulla copertina di un libro, su un volantino pubblicitario, su un biglietto della metropolitana, su un biglietto da visita, insomma su ciò che restava dopo la perquisizione. “Queste parole sono tracce, e il bisogno di dire ai propri cari dove sono, dove stanno andando e cosa sta succedendo”dice lo storico Tal Bruttmann. Il più delle volte buttati giù dai vagoni, alcuni – ma quanti?, si chiede lo specialista della Shoah e dell’antisemitismo nel XX secoloe secolo − non sono mai arrivati a destinazione.
Strazianti sono le parole di quest’uomo, classe 1960, che racconta questa cartolina inviata per Shana Tova, il Capodanno ebraico, da due fratelli di suo padre, di Drancy (Seine-Saint-Denis): “Ai nostri cari genitori, possa l’anno che viene confortare i nostri cuori sofferenti unendo nuovamente ogni famiglia sotto il suo tetto. I tuoi figli, Armand e Jacques. » Deportati ad Auschwitz, Armand, 20 anni, e Jacques, 9 anni, non torneranno mai più. “È l’unico legame che ho con i fantasmi con cui convivo da quando sono natodisse l’uomo. Questo è uno di quei documenti che riparano il tessuto che si è strappato. Siamo Schneiders, ripariamo [Schneider signifie tailleur, couturier, en allemand]. Il nostro tessuto, il nostro mondo, è andato a pezzi, e ogni documento è una piccola cucitura: cerchiamo di ricucire come meglio possiamo. »
Per la storica Annette Wieviorka queste parole, in quanto ultimi segni di vita, sono come reliquie. Lei stessa non ha lettere dei nonni paterni, morti ad Auschwitz, solo la carta d’identità di suo nonno e la stella ebrea di sua madre. Karen Taieb spera che sempre più famiglie affidino queste “ultime parole” agli archivi.
“L’ultima parola”, programma di Alain Lewkowicz, diretto da Guillaume Baldy (Fr., 2025, 2 x 28 min). Si trova su France Culture e su tutte le consuete piattaforme di ascolto
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