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Pragmatismo o catalizzatore del caos?

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ETra rotture e continuità, queste scelte sollevano seri interrogativi il futuro della diplomazia americana.

In primo luogo, non si può ignorare la scelta di Marco Rubio come Segretario di Stato, un “falco” che non nasconde né il suo scetticismo di fronte ai massicci aiuti militari all’Ucraina, né il suo allineamento quasi sistematico alle posizioni israeliane. Rubio, figura iconica del Partito Repubblicano, incarna una visione di politica estera che potrebbe invertire anni di coinvolgimento americano nell’Europa orientale. La sua nomina allude a uno scenario in cui Washington limita il suo sostegno a Kiev per incoraggiare una “soluzione negoziata”, un eufemismo che, in pratica, potrebbe significare cedere terreno a Mosca.

Se questo approccio mira ad allentare le tensioni, rischia anche di premiare l’aggressione militare, un precedente preoccupante per gli equilibri geopolitici globali.

Al suo fianco, Elise Stefanik, nominata ambasciatrice alle Nazioni Unite, illustra un altro aspetto della strategia di Trump: una diplomazia muscolosa, ma focalizzata su interessi ristretti. Feroce difensore di Trump e forte voce del conservatorismo americano, Stefanik potrebbe trasformare la presenza americana alle Nazioni Unite in un’arena di confronto, in particolare contro potenze come la Cina o l’Iran. Tale atteggiamento, sebbene attraente per una certa base elettorale, rischia di alienare i tradizionali alleati degli Stati Uniti e di rafforzare l’influenza dei loro rivali nelle istituzioni multilaterali già indebolite.

E che dire dell’Ucraina e di Gaza?
Le implicazioni di queste scelte per la guerra in Ucraina meritano particolare attenzione. Trump ha ripetutamente affermato che metterà fine al conflitto “in 24 ore”, una promessa che a molti suona più come una retorica elettorale che come una strategia realistica. Eppure, con Rubio al timone della diplomazia, una proposta del genere potrebbe benissimo prendere forma. Un rapido “accordo” con la Russia, anche a costo di un parziale abbandono dei territori ucraini occupati, avrebbe ripercussioni disastrose per l’ordine mondiale.
I partner europei degli Stati Uniti, già nervosi di fronte ai segnali contraddittori di Washington, si troverebbero di fronte a un dilemma esistenziale: continuare a sostenere l’Ucraina senza il sostegno americano o accettare, con riluttanza, una pace imposta. Ciò non farebbe altro che indebolire ulteriormente l’unità transatlantica, pilastro della sicurezza occidentale sin dalla Seconda Guerra Mondiale.
Allo stesso tempo, le ripercussioni di queste nomine sul conflitto a Gaza e, più in generale, in Medio Oriente, sono altrettanto preoccupanti.
Trump, durante tutta la sua presidenza, ha mostrato un sostegno incrollabile a Israele. I recenti appelli dell’ex presidente per una “rapida pulizia” a Gaza lasciano poco spazio alle sfumature. Con Stefanik alle Nazioni Unite, questa linea dura potrebbe intensificarsi, rafforzando il controllo di Tel Aviv sulle decisioni strategiche degli Stati Uniti nella regione. Tuttavia, questo approccio ignora le complesse realtà sul campo. L’intensificarsi degli attacchi israeliani, combinato con un blocco sempre più severo, rischia di trasformare Gaza in una polveriera incontrollabile, con ripercussioni in tutto il Medio Oriente. A ciò si aggiunge lo spettro di un confronto aperto con l’Iran, uno scenario che preoccupa molti osservatori internazionali.
Di fronte a queste prospettive, alcuni vedono le nomine di Trump come un gradito riorientamento, un ritorno a una politica estera incentrata sulle “priorità nazionali”. Ma questa visione si basa su un presupposto discutibile: che gli Stati Uniti possano disimpegnarsi selettivamente da alcuni teatri di conflitto pur mantenendo la propria influenza complessiva.
La storia recente ha dimostrato che il vuoto lasciato da una superpotenza viene spesso colmato rapidamente, sia dalla Cina, sia dalla Russia, sia da attori regionali con ambizioni egemoniche.
Quindi, cosa concludere? Le scelte di Trump per la sua amministrazione offrono uno scorcio di quella che potrebbe essere una nuova era nella politica estera americana: meno multilateralismo, più confronto diretto e una forte enfasi sulle relazioni bilaterali transazionali. Un simile approccio potrebbe ridefinire il ruolo degli Stati Uniti sulla scena internazionale, ma a quale costo? La pace mondiale, già fragile, potrebbe non resistere a un “America first” nel senso più stretto del termine.
E se il mondo dovrebbe imparare qualcosa dalle nomine di Trump è che l’inaspettato è ormai l’unica certezza. Resta da vedere se questa imprevedibilità diventerà una forza stabilizzatrice o un catalizzatore del caos.

F. Ouriagli

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