Per Paul St-Pierre Plamondon, attaccare ieri il wokismo del Québec solidaire è stato un po’ audace e intelligente, ma comporta alcuni rischi.
Innanzitutto, sappiamo di cosa stiamo parlando esattamente?
La definizione del leader del PQ è molto imprecisa: “Un movimento, in senso stretto, antidemocratico, che rifiuta il dialogo e che usa l’intimidazione e la disinformazione per imporre la propria agenda. E la gente è stufa, io per primo”.
Sicuramente l’ha perfezionato segnalando una quindicina di concetti popolari come “razzismo sistemico”, “privilegio bianco”, “scrittura inclusiva”, “spazi sicuri”, “cultura dell’annullamento”.
Comprendiamo che si riferisca a programmi di “equità, diversità, inclusione”, antirazzismo radicale, ideologie trans, acronimo LGBTQ e le sue numerose estensioni, neofemminismo, ecc.
È chiaro che i dettagli del “wokismo” sono estremamente fluidi.
Stufo
Sì, c’è un’esasperazione palpabile in una parte della popolazione di fronte a questi movimenti, soprattutto nelle loro assurde manifestazioni estreme. E capiamo perché.
(Personalmente mi rattrista l’esclusione praticamente totale, nel nostro sistema scolastico, di quelli che un tempo chiamavamo i “classici” in letteratura o in filosofia, con il pretesto che “trasmettono stereotipi” o qualche sentimento “fobico”).
Il termine “stufo” è percepito in diversi ambienti (si parla ad esempio con gli accademici). Siamo “stanchi” di queste tendenze, che spesso sono piene di buone intenzioni (come se ne fosse lastricato l’inferno!), ma che hanno la sfortunata tendenza a imporre le loro analisi (a volte semplicistiche) e determinate soluzioni; molti dei quali riguardano la logica della scomunica e della censura.
Questo diffuso “stufo” potrebbe aver avuto un ruolo nell’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti.
Etichetta famigerata
Ma proprio tra i nostri vicini del Sud, la lotta contro il wokismo ha quasi sostituito quella contro un altro famigerato “ismo”, il “comunismo”. Un’altra etichetta onnicomprensiva che è servita, dal 1953, a screditare indiscriminatamente tutte le misure collettive, anche le più piccole.
Pensare in termini di etichette, fare politica basata sulle etichette non porta a niente di buono. Quando QS ci dice, ad esempio, che “la sinistra deve vincere”, mi sembra molto breve. Non ci interessa se la sinistra “vince” o “perde”; l’importante è che vincano i quebecchesi.
Inoltre, “abbattere il wokismo” costituisce un programma insoddisfacente. Tanto più che, per sconfiggere il “politicamente corretto”, alcuni credono di essere obbligati a mostrarsi “politicamente abietti”!
Immigrazione
Che il Parti Québécois del PSPP sia diventato un critico efficace dell’“ideologia immigratista” di Trudeau è comprensibile.
Che egli rifiuti, in questo dibattito, di lasciarsi mettere la museruola da un certo “wokismo” che cerca di vietare qualsiasi analisi, qualsiasi osservazione, legata alla pressione che l’attuale crisi migratoria esercita sui servizi pubblici, ovviamente lo capiamo anche.
Ma a volte, a forza di ribadire questi messaggi, sviluppando una critica anti-sveglia, l’attuale PQ può dare l’impressione di aver perso di vista ciò che Ruba Ghazal incarna e ha ricordato ieri: questo “nazionalismo inclusivo di Gérald Godin”, che ha lavorato è così difficile (con un certo successo) rendere il Quebec un vero crogiolo di integrazione.