La voce di un musicista che, solitamente, non era un cantante ma un bassista, e che bassista, Phil Lesh che abbiamo appena ascoltato in una canzone firmata nel 1970 dal defunto gruppo californiano Grateful Dead, «Scatola della pioggia». Una canzone che è servita da introduzione a quello che rimane, senza dubbio, uno dei migliori, se non il migliore album del gruppo, Bellezza americana. Phil Lesh era uno dei pilastri di questo gruppo. Abbiamo appena saputo della sua morte, avvenuta all’età di ottantaquattro anni. Phil Lesh aveva scritto, nota per nota, la melodia di questa canzone di cui Robert Hunter, paroliere ufficiale del gruppo, aveva scritto il testo. È una canzone molto nell’aria di quell’epoca, 1970, tra rock e country, ancora segnata, discretamente, dal movimento psichedelico da cui proveniva il gruppo Grateful Dead. Questo stile particolare stava cominciando a prendere forma, era in particolare quello del famoso trio Crosby, Stills e Nash, presto un quartetto con Neil Young. E contrariamente a certi preconcetti sulla musica che facevano gli hippy della West Coast, i testi delle canzoni, il sentimento che diffondevano, non avevano nulla di gioioso o di ottimistico. Già il nome del gruppo, anche se apparentemente proveniva da una carta dei tarocchi, aveva una stridente risonanza: i morti o i morti riconoscenti.
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Il paroliere dei Grateful Dead Robert Hunter aveva scritto una poesia semplice ed enigmatica, come lo sono le migliori. Cosa potrebbe essere questa scatola di pioggia, acqua e vento? Ebbene la Terra su cui ci muoviamo. Non sappiamo chi ha messo lì questo pianeta. Noi stessi giriamo attorno ad esso come falene attorno ad una fiamma, dice la canzone, non controlliamo nulla, non capiamo nulla, e tutto finisce velocemente. Sperare in tutto questo? Nessuno. Utopia? Luogo inesistente. Come vi ho detto, è stato Phil Lesh a cantare questa melodia, cosa insolita, spesso la voce che sentivamo, in Grateful Dead, era quella di Jerry Garcia, il chitarrista e cantante, quando non era quella dell’altro chitarrista , Bob Weir, l’unico sopravvissuto della formazione originale, oggi, con il batterista Bill Kreutzmann. Vale la pena menzionare brevemente la carriera di Phil Lesh perché non è molto consueta. Già, all’interno dei Grateful Dead, aveva praticamente un ruolo da solista, cosa rara per un bassista. Suonava molto melodioso, in contrappunto, come Paul McCartney o Brian Wilson con i Beach Boys. Anche se è stato piuttosto l’esempio, vicino a lui, a San Francisco, di Jack Casady dei Jefferson Airplane o dello scozzese Jack Bruce, del trio britannico Cream, ad ispirarlo. Suonava spesso, ho letto, uno strumento a sei corde e tra gli estimatori del gruppo, che lo seguivano fedelmente, c’erano quelli chiamati Dead Heads, devoti di Phil Lesh, che cominciavano sistematicamente a guardarlo dalla parte dove suonava. Apparentemente si chiamava Phil Zone.
Phil Lesh non aveva intenzione di suonare in un gruppo rock. Figlio unico, cresciuto nell’amore per la musica da un padre pianista dilettante, avrebbe dovuto, logicamente, diventare trombettista in un’orchestra classica. Questa è la formazione che ha seguito al conservatorio, all’interno di un liceo. Una formazione che ha completato seguendo presso un’università, il Mills College, di Oakland, la città che si affaccia su San Francisco, dall’altra parte della Baia, un corso di composizione e teoria musicale tenuto da Luciano Berio, compositore italiano che fu uno dei dei pionieri dell’uso dell’elettronica nella musica specifica delle avanguardie del periodo. Allievo di Berio, negli Stati Uniti, fu uno dei pionieri del cosiddetto movimento minimalista, il compositore Steve Reich. Congedato dalle orchestre alle quali aveva brevemente partecipato, Phil Lesh ebbe una sorta di rivelazione quando scoprì Jerry Garcia suonare il banjo e cantare in un bar. Poi si guadagnò da vivere lavorando in un ufficio postale, a volte anche come tecnico del suono: “Questa è la prima voltascriverebbe Phil Lesh nella sua autobiografia, citata dal New York Times nel suo elogio, che ho avuto l’intuizione che una musica semplice e diretta potesse avere lo stesso impatto estetico ed emotivo di un’opera e di una sinfonia”. Un’esperienza che altri conoscitori della grande musica hanno o continuano ad avere, nonostante il dogmatismo o la semplice rigidità mentale di alcuni.
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In ogni caso, questa esperienza spinse Phil Lesh ad abbandonare una strada chiara e, su suggerimento di Jerry Garcia, ad imparare, in due settimane, a suo dire, a suonare il basso, beh, aveva delle buone basi. Si avvicinò a questo strumento basandosi sulla sua conoscenza dell’armonia, da Johann Sebastian Bach a Charles Mingus. Da cui è nato un gioco davvero unico, al quale ho voluto rendere omaggio. Prima voce oggi ad apparire in questo programma, quella di Kaia Kater. Una musicista che vi ho presentato per la prima volta otto anni fa, nel 2016. Allora aveva poco più di vent’anni. Cittadina del Quebec, inglese, di origine mista indiana e africana, Kaia ha studiato il folklore degli Appalachi, una catena montuosa, che scende dall’estremità orientale del Canada fino all’Alabama, nel sud-est degli Stati Uniti, attraversata da viaggiatori , venditori ambulanti, predicatori, la fonte di molte canzoni alla fonte dei repertori blues, folk e country. Kaia Kater è una virtuosa del banjo. La sua musica si è evoluta rispetto ai suoi esordi, aprendosi a ritmi diversi, evocando, a volte, certa musica mediorientale. Troviamo anche pulsazioni e armonie dal jazz, come in questo titolo con cui inizia il suo nuovo album, Medicina strana. La canzone si chiama «La Strega», la strega.
Per saperne di più ascolta lo spettacolo…
Playlist:
Morto Grato – Album «Box of Rain» «American Beauty» (rimasterizzazione 2013)
Kaia Cater – « The Witch » (feat. Aoife O’Donovan) album « Strange Medicine »
Yasmin Williams – «Malamu» (feat. Marcus Gilmore & Immanuel Wilkins) album «Acadia»
La stazione meteorologica – « Insegne al neon »
Laura Marling – Album « Schemi ripetuti » « Schemi ripetuti »
Astrid Sole – “Say You Love Me” album “Grande dubbio”
Cassandra Jenkins – “Telephone Waiting” album “My Light, My Destroyer”
Cassandra Jenkins- Album «Devotion» «La mia luce, il mio distruttore»
Morto Grato – Album «Unbroken Chain» «Dal Mars Hotel»
Viaggio molto buono Ascolta più tardi
Lezione Ascoltare 53 minuti
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