In principio era il Nilo. Il Nilo era con gli dei, e il Nilo era dio. Se il grande fiume africano è, per così dire, assente dalla mitologia e dalla cosmogonia dell’antico Egitto, è perché è in realtà, nella storia dei popoli che lo costeggiano, la divinità suprema, colei che si nutre generosamente e di cui una rabbia terribile, sia che si alzi dal letto o ritorni nell’acqua bassa, li spaventa. Queste caratteristiche sono valide oggi come lo erano nei tempi antichi. Questa è la caratteristica di una divinità eterna. Da quasi sessanta secoli la storia dei popoli che il Nilo unisce, volontariamente o con la forza, dipende dai suoi umori. E quando gli uomini osano pretendere di controllarli, il Nilo si vendica e, come Giove, fa impazzire coloro che vuole perdere.
Questo è ciò che sta accadendo davanti ai nostri occhi, accecati dalla guerra in Ucraina e in Medio Oriente e dal rumore degli stivali intorno a Taiwan.
2011, GERD
È difficile riassumere in poche righe i tragici eventi degli ultimi anni nel bacino del Nilo. Il 2011 non è solo l’anno delle rivoluzioni arabe e del periodo di disordini che ne sono seguiti, in particolare in Egitto, che è riuscito ad emergere a prezzo di un colpo di stato militare, e soprattutto nello Yemen, che è fallito non in un periodo di difficoltà. . Certamente, geograficamente, “felice Arabia” non appartiene al bacino del Nilo. Ma storicamente è legato ad esso fin dai tempi antichi della regina di Saba.
Ed è sempre nel 2011 che l’Etiopia ha lanciato la GERD (Grand Thirtyian Renaissance Dam), un vero e proprio progetto “faraonico” di sviluppo di una diga sul Nilo Azzurro, che dovrebbe fornire elettricità alla metà dei circa 120 milioni di etiopi. Tuttavia, il Nilo Azzurro, che nasce nel cuore dell’Abissinia, presso il Lago Tana, a sua volta alimentato dalle molteplici sorgenti degli altopiani etiopi, è il principale affluente del grande Nilo che lascia Khartum, la capitale del Sudan costruita all’epoca confluenza del Nilo Azzurro e del Nilo Bianco, un fiume già immenso che lambisce i grandi laghi dell’Africa centrale dove nessuno ha mai trovato la sua sorgente, nemmeno Livingstone. Le deità non hanno ombelichi.
Disprezzo per la condivisione dell’acqua
Oggi, alla fine del 2024, il progetto dà vita ad un’alleanza di fatto tra i vicini dell’Etiopia (a parte il Kenya) sponsorizzata dal regime egiziano, che critica Addis Abeba per una gestione non sufficientemente inclusiva della ricchezza suprema che è l’acqua del Nilo. E questa alleanza non ha solo intenzioni pacifiche contro l’Etiopia. Come si è arrivati qui, sull’orlo di una nuova guerra interstatale, la prima del secolo nata da un conflitto legato all’accesso alle risorse idriche?
Lanciando il GERD (anagramma di DERG, la sinistra giunta comunista succeduta all’impero del Negus dal 1974 al 1991), le intenzioni del governo di Addis Abeba non erano puramente orientate alla prosperità del suo popolo. Logorato da vent’anni di potere indiviso, il partito del primo ministro Meles Zenawi, poi Haile Mariam Dessalegn, (il presidente federale ha solo un ruolo cerimoniale in Etiopia), dominato dalla minoranza etnica tigrina, ha cercato soprattutto di rilegittimarsi in di fronte alle tendenze centrifughe incoraggiate da un federalismo etnico che vuole rompere con l’unitarismo dell’impero Negus, storicamente dominato dall’etnia Amhara che gli ha dato in particolare il suo linguaggio veicolare.
Arrivato nel 2018 in seguito ad una rivoluzione di palazzo all’interno del partito al governo, il nuovo Primo Ministro Abiy Ahmed, ex ufficiale dell’intelligence dell’etnia Oromo di suo padre (numericamente maggioritaria ma storicamente dominata dagli Amhara, l’etnia di sua madre), ha voluto avere un impatto ponendo fine al conflitto territoriale con l’Eritrea che durava da troppo tempo, ricevendo così il Premio Nobel per la Pace 2019. Con questo riconoscimento internazionale, Abiy Ahmed ha rilanciato il suo paese in una politica imperiale, reprimendo internamente le tendenze centrifughe e. esternamente perseguendo il progetto GERD in violazione del diritto internazionale relativo alla condivisione delle risorse idriche.
Una guerra civile
Ciò si è tradotto internamente in un’implacabile guerra civile contro l’ex gruppo etnico dominante del Tigray, e in politica estera la coalizione di tutti i suoi vicini si è preoccupata del riempimento unilaterale dell’immenso bacino idrico situato a monte del confine sudanese. E non si può escludere che la ribellione del Tigray, repressa con incongrua ferocia da parte di un premio Nobel, sia stata istigata, incoraggiata, addirittura armata dai servizi segreti egiziani, di cui conosciamo le capacità.
Questa coalizione, in costruzione da tre anni, si è cristallizzata in un vertice tripartito senza precedenti che si è tenuto l’11 ottobre ad Asmara, capitale dell’Eritrea, paese teoricamente in pace con l’Etiopia dal 2019 ma al quale potrebbe unirsi un intervento degli altri due partecipanti Al vertice: Egitto e Somalia, che hanno firmato un accordo militare in agosto ed è facile capire contro chi potrebbe essere diretto.
È vero che l’Etiopia, un vasto paese senza sbocco sul mare in cerca di uno sbocco al mare, ha mancato di tatto nei confronti del vicino somalo, firmando un accordo commerciale con la provincia secessionista del Somaliland con l’obiettivo di opporsi alle strutture portuali di Berbera, il porto di Gibuti congestionato e quello di Assab ancora inaccessibile. Ed è così che il bacino del Nilo comunica con il Mar Rosso e la penisola arabica. Da notare per inciso che le strutture portuali di Berbera sono controllate dal 2016 dalla società emiratina Dubai Ports (che ha spodestato il gruppo francese Bolloré). Tuttavia, gli Emirati Arabi Uniti sono protagonisti a pieno titolo della tragedia in corso.
Chi può fermare questa guerra civile?
È infatti noto che i servizi degli Emirati Arabi Uniti sponsorizzano la ribellione paramilitare del generale Dogolo “Hemeti” che da più di un anno dilania il Sudan. Alleati della giunta militare (sponsorizzata dall’Egitto) che ha rovesciato nel 2019 il regime di Omar al-Bashir, a lungo alleato dell’Iran e poi dei Fratelli Musulmani (e quindi del Qatar), i paramilitari sudanesi sono gli eredi delle milizie arabe (Janjaweed e altri), reso famoso dai massacri delle popolazioni non arabe del Darfur e del Sud Sudan negli anni 2000.
Per allontanarli e suggellare nel sangue il rovesciamento dell’alleanza a beneficio dell’Arabia Saudita di MBS, il regime di Bashir li ha poi inviati a combattere nello Yemen contro la ribellione Houthi, sostenuta dai suoi ex alleati iraniani, insieme agli Emirati e ai Sauditi, tra cui costituivano il grosso della fanteria. I paramilitari tornarono notevolmente stagionati e arricchiti. Manipolati prima dall’esercito regolare contro un regime di Bashir in crisi, poi contro il potere civile risultante da una rivoluzione (relativamente) pacifica, finirono (con l’aiuto dei mercenari russi di Wagner) per ritorcersi contro la giunta (i cui leader erano tutti formati nelle accademie militari egiziane) in una guerra civile di cui non vediamo né il significato né l’esito.
Non è quindi escluso che i servizi egiziani finiscano per raggiungere un accordo con i servizi emiratini (che condividono una comune detestazione nei confronti dei Fratelli Musulmani) per porre fine alla guerra intersudanese e reindirizzare l’ardore bellicoso delle forze etiopi contro i Vicino etiope. Paramilitari sudanesi (in guerra da più di 20 anni). Ci sono ancora alcune controversie territoriali da risolvere nella zona di confine attraversata dal Nilo Azzurro.
L’isolamento dell’Etiopia
Indebolita dalla ribellione del Tigray che rivelò le scarse capacità del suo esercito, pallido erede della potente armata rossa del DERG, l’Etiopia non avrebbe indubbiamente resistito a lungo contro i suoi alleati nemici. Tuttavia, è passato il tempo in cui il regime di Zenawi rappresentava uno dei principali punti di appoggio americani in Africa ed è improbabile che gli Stati Uniti accorgano in aiuto di un alleato così controverso, indipendentemente da chi sia alla guida della Casa Bianca . Lo stesso vale per gli israeliani, tradizionalmente vicini agli etiopi (qualcuno direbbe fin dai tempi di re Salomone) ma i cui servizi e le cui forze armate sono oggi orientati contro l’Iran e i suoi delegati. Tuttavia, l’Iran, che non sembra svolgere un ruolo importante nella guerra civile sudanese, non sponsorizza nessuno degli attori della tragedia in corso.
Lo stesso non vale per altre potenze regionali come non solo l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, ma anche l’Arabia Saudita e persino la Turchia. Da parte saudita, con un gesto di alta politica che ricorda il modello galliano, il principe ereditario MBS ha voluto uscire dalla guerra in Yemen per dedicarsi ai suoi progetti di sviluppo sulla costa del Mar Rosso. E la guerra civile sudanese, così come la dominazione Houthi della costa yemenita, non è in alcun modo favorevole a ciò. Quanto ai turchi, cercano di riconnettersi con l’eredità ottomana, che controllava l’Hejaz fino allo Yemen fino all’avvento, appunto, dei Saud. Ciò si traduce, tra l’altro, nell’intervento di mercenari turchi accanto al legittimo governo somalo e in un inaspettato riavvicinamento con il regime egiziano che traccia una linea sotto il periodo di Morsi.
Si osserverà che la religione non gioca alcun ruolo in questi conflitti, sia in Sudan, dove tutti i protagonisti sono musulmani sunniti, sia in Etiopia, dove si suppone che i gruppi etnici Amhara e Tigray condividano la stessa fede cristiana ortodossa. Prova questo, oggi come nella più lontana Antichità, che la divinità al di sopra delle religioni resta il Nilo?
E la Francia?
Ma, direte voi, come interessano alla Francia queste storie lontane? Da Fashoda la bandiera tricolore non è più bagnata nelle acque del Nilo. Tuttavia, il nostro Paese ha ancora interessi ai confini della regione in questione: in Ciad, rassegnato a subire gli sconvolgimenti dei ricorrenti massacri nel vicino Darfur; a Gibuti, un pezzo di Etiopia strappato all’impero abissino sotto il nostro Secondo Impero durante uno dei suoi altrettanto ricorrenti periodi di anarchia.
La Francia, membro permanente del Consiglio di Sicurezza, potrebbe tuttavia svolgere un ruolo diplomatico di primo piano nella regione grazie alle buone relazioni che intrattiene, oggi come storicamente, con i principali attori della tragedia in corso. Istigando la mediazione per raggiungere una soluzione negoziata al problema del riempimento del GRED, il nostro Paese proteggerebbe l’Etiopia da un ulteriore collasso militare, evitandole nel contempo di perdere la faccia.
La Francia si riallaccerebbe così all’antica amicizia tra de Gaulle e il Negus, nata nelle battaglie della Liberazione. Si farebbe un’amica influente in Africa per molto tempo (l’UA ha sede ad Addis) senza arrabbiarsi con le altre parti in conflitto, che rimangono partner o addirittura alleati. Sarebbe per il nostro Paese un ritorno in Africa dalla porta principale dopo i fallimenti che conosciamo. Ciò sarebbe coerente anche con la nostra strategia per l’Indo-Pacifico, alla quale gli sconvolgimenti in Nuova Caledonia non aiutano a dare credibilità.
Che posto occupa la Francia in Africa e nel mondo?
L’azione diplomatica, non quella delle strette di mano davanti alle telecamere, ma quella molto più efficace, che utilizza canali discreti, addirittura segreti, non richiede grandi risorse di bilancio. Il nostro Paese ha ancora bisogno di riconnettersi con un destino, una vocazione o più semplicemente una strategia. Tutti i poteri regionali ne hanno uno, che attuano diligentemente. Qual è la grande strategia del nostro Paese, al di là delle scadenze elettorali che si susseguono a ritmo accelerato? Abbiamo deciso di lasciarci la Storia alle spalle?
Per troppo tempo ci è mancata la forza di volontà, la perseveranza e, soprattutto, la visione e la comprensione del posto che ci spetta nel mondo. Il bellissimo progetto “Louvre Abu Dhabi” avrebbe visto la luce senza Champollion? De Gaulle disse che dietro le vittorie di Alessandro c’era Aristotele. Avrebbe potuto aggiungere che dietro le scoperte di Champollion c’era Bonaparte.
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* Il gruppo Mars, composto da una trentina di personalità francesi di diversa provenienza, del settore pubblico e privato e del mondo accademico, si mobilita per produrre analisi su questioni riguardanti gli interessi strategici relativi all’industria della difesa e della sicurezza e all’innovazione tecnologica e scelte industriali che sono alla base della sovranità francese.