Di nuovo nel mezzo dell’incubo andino. In Mortepeau, suo primo romanzo, l’autrice ecuadoriana Natalia García Freire ha condiviso con noi il calvario di un giovane orfano, Lucas, cacciato da due giganti dalla casa di suo padre. Anche qui si tratta di espropriazione poiché Mildred Capa, la giovane ragazza che appare all’inizio del libro, è stata costretta ad abbandonare la sua casa. La casa viene bruciata e i maiali odorosi di fieno, che fungevano da animali domestici, vengono uccisi.
Ma le sue maledizioni non furono gettate al vento invano. Anni dopo, il villaggio di Cocuán, nome vicino a quello di un ansiolitico in America Latina, si trovò immerso nella sventura. Nessun segnatempo, nessuna indicazione che possa collegare il luogo ad una geografia precisa. Con Natalia GarcÍa Freire, classe 1991, tutto è immerso in un’atmosfera nebbiosa di realismo magico. Ben presto Cocuán e le sue case di mattoni non furono altro che un villaggio vuoto. La metà degli abitanti sono fuggiti; e nudi, calvi, trasformati in spettri, partirono verso la giungla. L’altra metà va alla loro ricerca guidata da un prete con il quale le cose non vanno bene. L’uomo di Chiesa finisce per tagliarsi le orecchie perché è così ossessionato dal ritornello di un idiota – “La carne viva è cattiva, la carne viva è pessima”.
La vecchia guaritrice Agustina
Questo villaggio vuoto, questo
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