Sono settimane che non viene annunciato come il favorito: Kamel Daoud ha ricevuto, lunedì 4 novembre, il premio Goncourt per Ore (Gallimard, 416 pag., 23 euro, digitale 15 euro). Questo terzo romanzo, di forza sorprendente nel suo lirismo cupo e serio, dà voce ad Aube, una giovane donna resa muta dal maldestro taglio della gola di cui fu vittima all'età di cinque anni. Era il “decennio nero” degli scontri tra gruppi islamici ed esercito algerino (1992-2002). Aube parla con Houri, la bambina che porta in grembo e che pensa di abortire, e parte per il villaggio dove è stata ferita e dove sono stati assassinati i suoi genitori, sua sorella e mille altri abitanti del villaggio.
Significa qualcosa per te essere il primo scrittore algerino a ricevere il Premio Goncourt, soprattutto in un contesto in cui le tensioni politiche e memoriali con la Francia sono particolarmente forti?
Sono un figlio dell'Algeria, della scuola algerina, delle ambizioni algerine. Questo premio ha molto significato, innanzitutto a livello personale (come posso evitarlo?): è un successo per me, per la mia famiglia. È anche un segnale forte per gli scrittori algerini in erba, questi scrittori che sono terrorizzati da certe correnti politiche, che sono distrutti nella culla e che hanno paura di scrivere. È importante che sappiano che scrivere un libro è un processo che può avere un lieto fine.
Per quanto riguarda il contesto, sono uno scrittore, non un politico. Un libro ti spinge a immaginare, a sperare in altro. Un libro non cambia il mondo, ma quando è ampiamente letto può diventare uno strumento, un messaggio. Ciò che spero è che questo libro faccia scoprire agli occidentali il prezzo delle libertà, soprattutto per quelle delle donne, e faccia capire agli algerini che dobbiamo confrontarci con tutta la nostra storia, e che non è necessario feticizzare parte della storia [la guerre d’indépendance] rispetto all'altro [la guerre civile des années 1990].
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Lei dice spesso che la Francia è cieca di fronte all’ascesa dell’islamismo e dell’Islam politico, che non vuole imparare la lezione di ciò che ha portato al “decennio nero” in Algeria. Da questo punto di vista spera che Goncourt possa sortire effetti?
Sono i lettori che fanno risuonare o meno un libro. Io sono uno scrittore, editorialista, giornalista e algerino (che è una professione in sé), e spero che apriremo gli occhi. Ho l'impressione di trovarmi, tutto sommato, più o meno nella stessa situazione in cui si trovavano gli scrittori sovietici che mettevano in guardia contro i gulag, quando in Occidente si cantavano i meriti del comunismo. Qualcuno, ad un certo punto, ha dovuto dire che solo perché odiavamo l'imperialismo non significa che i gulag non esistessero.
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