L'ingratitudine e la sua sorella minore, il tradimento, sono sempre cresciute, fiorite e portate a maturazione i loro amari frutti all'ombra del potere. Per limitarci alla Francia e all'epoca contemporanea, gli esempi citati e, a volte, subiti dal compianto Jacques Chirac, poi da Nicolas Sarkozy, Emmanuel Macron e dal giovane Gabriel Attal sono ancora nella memoria di tutti o già nella cronaca e a breve previsioni a termine. Questa è la vita nella terra degli scorpioni, dei serpenti e delle vipere. È politica, intendo.
I bravi investigatori di Washington Post oppure, in loro mancanza, gli storici ci sveleranno un giorno nella loro interezza la trama di intrighi, complotti, tradimenti, defezioni che, dietro le quinte, costrinsero lo sfortunato Joe Biden a sacrificarsi nobilmente, suo malgrado, sull'altare del partito democratico. Festa. La vicenda si è svolta senza intoppi. Senza ancora avere la parola fine, gli addetti ai lavori hanno apprezzato la rapidità e l'eleganza della manovra che ha portato il suo protetto, il suo secondo, il suo vicepresidente preferito, dopo aver allegramente spinto nelle ortiche il nonno, a prendere il suo posto.
Giovane – almeno più giovane del suo mentore caduto –, chiaramente rappresentativa di un’America aperta, multiculturale e multietnica, apparentemente dinamica, amichevole, sorridente, moderna, Kamala Harris sembrava avere tutte le carte in mano.
La mancanza di visione di Kamala Harris
Sono passati tre mesi, solo tre mesi, e l'aura della candidata tirata fuori dai suoi anziani dalla borsa delle sorprese si è notevolmente attenuata. Invano gli sponsor più o meno ufficiali della candidata hanno moltiplicato gli sforzi, i discorsi, gli interventi, gli incontri per convincere sostenitori, titubanti e perfino avversari che lei lo era, che era “la scelta giusta”, come diceva Giscard. Il talento e il peso che il clan Obama e il clan Clinton mettono in gioco portano piuttosto a chiedersi perché Barack, o meglio Michelle, Hillary o meglio Bill non abbiano raccolto la sfida e semplicemente non l'abbiano fatto. commisero un grosso errore lanciando nella competizione una puledra che, erroneamente, credevano avrebbe fatto una bella figura al vecchio cavallo di ritorno che le si opponeva. Quanto più tutti si mobilitano, gridano e si esauriscono per dare respiro, calore, spessore, consistenza a Kamala, tanto più evidenziano per contrasto le inadeguatezze, i limiti, le ambiguità, la mancanza di eloquenza e la mancanza di visione di un'uscita prematura campionessa di fiato la cui ambizione nessuno mette in dubbio ma la cui ambizione è lecito e persino giudizioso chiedersi, un po' tardi, se abbia davvero la portata della sua ambizione; insomma, se fosse la persona giusta, al momento giusto, nel posto giusto. In ogni caso, a tre giorni da un’elezione i cui problemi e conseguenze eccitano legittimamente gli Stati Uniti e l’intero pianeta, l’incertezza è totale e la nebbia è totale.
Sulla strada verso la Casa Bianca, a volte al volante, a volte in testa, per un capello (bionda), e infine testa a testa mentre viene lanciato lo sprint finale, la favorita affronta il più formidabile degli outsider.
Donald Trump: immutabile, insopportabile, affascinante, inaffondabile
Non saremo ridicoli, nell'ambito necessariamente limitato di una cronaca, nel presentare il personaggio dai capelli imperturbabilmente ossigenati, il cui incarnato sempre abbronzato deve molto ai raggi UV e il resto al generoso sole della Florida, l'uomo in abito blu e cravatta rossa il cui guardaroba – cosa difficile a credersi – sembra ancor più limitato del vocabolario, dell'oratore che instancabilmente snocciola, senza stancare il suo innumerevoli pubblico, gli stessi temi, le stesse proposizioni, le gli stessi oltraggi, gli stessi eccessi, le stesse farneticazioni, le stesse promesse che milioni e milioni di cittadini nordamericani vogliono sentire, ugualmente distanti, in tutto e per tutto, da New York e San Francisco, ugualmente irritati, disillusi o pazzi di rabbia o disperazione di fronte al disprezzo di coloro che sono un po’ frettolosi nel designarsi come élite (lo sappiamo anche in patria) e di fronte all’evoluzione del loro grande Paese devastato dalla piaga della tossicodipendenza e minacciato dalla decadenza prima di aver conosciuto la civiltà… Non presentiamo Donald Trump, sa farlo molto bene da solo, come nel 2016, con successo, come nel 2020, bastonato e cattivo perdente, come oggi, proveniente da lontano e perfettamente capace di battere la sua rivale sul palo, con sorpresa di tutti. Immutabile, insopportabile, affascinante, inaffondabile… ma trascinando come una palla al piede una fedina penale che la sua rielezione avrebbe fatto sparire per magia della vittoria e che la sua sconfitta avrebbe completato il danno.
E l'America, nel mondo?
Faremo attenzione a non aumentare ulteriormente il flusso torrenziale di commenti, analisi, decrittazioni e resoconti che le elezioni del 5 novembre generano, come è normale, da questa parte dell'Atlantico. Una parola, però. Gli esperti ci assicurano giorno dopo giorno che gli elettori nordamericani decideranno esclusivamente sulla base di criteri interni: diritti delle donne, inflazione, prezzi, tenore di vita e di attività, controllo dell'immigrazione… Dobbiamo crederci? Possiamo credere che gli elettori di quella che resta, fino a quando non sarà meglio informata, la prima potenza mondiale sul piano finanziario, industriale e militare, siano insensibili al contesto sul quale si collocano le elezioni di martedì prossimo: vale a dire il ruolo degli Stati Uniti nei tre paesi scenari in cui il rischio di una Terza Guerra Mondiale si gioca ora e potrà essere deciso negli anni a venire: Ucraina, Medio Oriente e Stretto di Formosa. Impantanati in una non-scelta finanziariamente, politicamente e umanamente disastrosa, gli Stati Uniti stanno perseguendo una politica del cane morto su questi tre fronti attraverso l’acqua, il sangue e la rinuncia. Danno a Zelenskyj i mezzi per continuare la guerra negandogli quelli che gli permetterebbero di vincerla. Hanno permesso a Netanyahu di prolungare nel tempo e di estendere sul terreno un conflitto che non è altro che una carneficina. Sul fronte ucraino, tagliando il rubinetto degli aiuti finanziari e tecnici a Kiev, Trump, se eletto, costringerebbe l’Ucraina ad abbandonare le quattro oblast che Mosca brama e già in gran parte occupa, nonché a riconoscere l’appartenenza della Crimea alla Tutto russo. Sostegno incrollabile e insospettabile di Israele, Trump, se eletto, fermerà e, se necessario, torcerà il braccio dello Stato ebraico per impedirgli di andare “oltre il fiume”, o anche, per estensione, dalle sponde del Mediterraneo alle sponde del Mar Caspio. Per quanto riguarda Taiwan, Trump è fermamente determinato a dichiarare guerra “totale” alla Cina, ma senza farlo F-16senza portaerei, senza missili, senza armi nucleari, sulla base di un presunto e rigoroso protezionismo. Insomma, il possibile presidente repubblicano è l’uomo capace di mantenere il suo Paese, quindi l’Occidente e, come corollario, il mondo sul pendio scivoloso dove lo hanno portato i leader sonnambuli, in vista dell’Apocalisse.
Scendiamo da queste altezze e torniamo all'immediato. Una certezza, nonostante il tempo nuvoloso in questo momento. Se, mercoledì prossimo (o nelle settimane successive), Donald Trump sarà proclamato vincitore, non si presenterà alle elezioni del 5 novembre.
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