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“Il dramma africano fa credere a chi parla una lingua straniera di essere un intellettuale”

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In questa rubrica pubblicata dal regista camerunense Jean-Pierre Bekolo, dà uno sguardo al capitalismo in Africa.

Leggi il suo testo qui:

“Il dramma di scuola in Africaè far credere a coloro che mettono insieme frasi in una lingua straniera di essere intellettuali. Adesso, a livello del tutto pratico, non producono nulla che possa alleviare la massa dei loro miserabili dolori…” Quando leggo questo, preso da un muro, mi viene in mente una sola risposta: soffri del capitalismo e nient’altro. Soffri di partecipare a un sistema che gli altri vorrebbero fosse diverso. Il capitalismo, dall’Africa dove tutto si compra e si vende, non ci colloca forse alla base della piramide?

I primi intellettuali che affrontarono questa questione, come si chiede l’autore, furono i marxisti. Le teorie marxiste mettono in discussione la società che ci fa soffrire. Prendiamo ad esempio il rapporto tra lavoro e capitale: creiamo un’impresa insieme; Io porto i capitali, e tu ti accontenti di lavorare in azienda, lavori anche più di me e sei il dipendente. Quando muori, i tuoi figli non ereditano nulla, perché non hai investito il capitale, anche se hai costruito l’attività con me. Ciò dimostra che finché accetteremo il primato del capitale sul lavoro, persisterà una profonda ingiustizia in questo sistema che consideriamo naturale. Tuttavia, il capitalismo non è naturale.

Quindi il lavoro che chiedi agli intellettuali non ha alcuna possibilità, perché è già stato fatto, ma la gente ha scelto il capitalismo. Basta vedere come, su piccola scala, il capitalismo sia distruttivo. Prendiamo l’esempio di un artista di talento che ha bisogno di musicisti per la sua band. I musicisti, in quello che chiamano “gumbo”, pretendono che l’artista riesca a pagarli, altrimenti non lo accompagnano. Questo artista, che già non ha nulla e che cerca di creare ricchezza con la sua arte, si trova quindi di fronte all’incapacità di finanziare il suo talento. Incapace di dimostrare di cosa è capace, finisce per spendere cifre ridicole per pagare i musicisti, che si accontentano e vivono di questo per un giorno o due. Quel che è peggio, colui che dà i soldi – il capitalista – diventa il principale proprietario di quest’opera, trasformata in merce.

Tuttavia, gli artisti potrebbero fare diversamente, evitando di considerarsi delle prede. Potremmo anche immaginare una tontina di lavoro tra musicisti, che i Beti chiamano “ekass”, dove ognuno si mobilita per aiutare gli altri a sgombrare il campo. Puntando sul capitale reale che è l’opera artistica, potrebbero entrare in una posizione di forza nei confronti dei detentori del capitale reale, e non di coloro che del “nkapitalismo” hanno solo le briciole – quello che io chiamo in senso peggiorativo “nkapitalismo”, per designare il capitalismo dei poveri. (“Nkap” è il termine camerunese per “denaro”).

Nel “capitalismo”, l’uomo è lupo per l’uomo, è predazione tra i poveri. È come due uomini inseguiti da un leone: uno si toglie le scarpe per correre più veloce, e l’altro gli chiede se spera di correre più veloce del leone. Lui risponde: “No, ma correrò più veloce di te. » Un’immagine di ognuno per sé, dove ognuno spera di non essere quello che verrà divorato. Al contrario, un’altra storia racconta di due uomini in una foresta con animali selvatici dove uno veglia mentre l’altro dorme, e viceversa. Immaginate per un attimo che uno dei due si allontani dall’altro per farsi strada da solo, quando andrà a dormire chi guarderà? È chiaro che con tale comportamento individualistico nessuno di loro sopravviverà, dimostrando che la solidarietà è, in definitiva, un atto di sopravvivenza personale. »

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