Come quasi tutti i film di Robert Zemeckis, Qui racconta un viaggio nel tempo, ma questa volta con un'inquadratura fissa. In un angolo del pianeta Terra che non si chiama ancora Stati Uniti, una pioggia di meteoriti stermina i dinosauri, una foresta cresce, un cervo sfugge con un balzo leggero alle frecce di un cacciatore indiano, presto gli alberi vengono abbattuti e un la strada attraversa il paesaggio dove ora circolano le auto. Qui viene costruita una casa dove ha inizio una curiosa palla di fantasmi: sotto l'occhio immobile della telecamera, passano generazioni di abitanti, coppie si formano e si sciolgono, nascono bambini, muoiono vecchi, in un gioioso disordine di epoche. Gli strati del tempo si susseguono e si rispondono in questa stessa estremità del soggiorno, attraverso la finestra della quale possiamo vedere, dall'altra parte della strada, l'imponente edificio coloniale dove un tempo visse Benjamin Franklin. Perché la costruzione dell'arredo, interamente digitale, è anche quella di un punto di vista, apparentemente fabbricato, luogo di testimonianza da cui guardare la Storia, fuori come dentro.
Questo è il dispositivo sorprendente che per il momento sembra valere Qui diffidenze e scherni: dopo la completa sconfitta della critica americana, il film è uscito in Francia in sordina e nessuno scommette davvero su un ritorno in auge del regista di Forrest Gumpautore di una mezza dozzina di film irregolari negli ultimi dieci anni. È vero che questa storia da camera d'America si espone candidamente a tutti i tipi di malintesi. Il primo riguarda il fumetto di Richard McGuire, al quale Zemeckis sostiene di essersi ispirato. Progettato alla fine degli anni '80 per le pagine di Crudoprestigiosa rivista d’avanguardia, ampliata e ripubblicata come “graphic novel” dieci anni fa, Ecco non appartiene a priori all'immaginario popolare che innerva l'universo del cineasta. Se la premessa è simile – una casa vista da un unico angolo fisso, la connessione non lineare delle epoche – la sua realizzazione sulla pagina testimonia un progetto altrimenti radicale. Almeno in superficie: McGuire ripercorre la storia della zona del globo in cui è cresciuto, a Perth Amboy, nel New Jersey; l'originalità risiede meno nel disegno, volutamente freddo, che nel trattamento della narrazione (scomposta) e nella struttura delle vignette, moltiplicate e incastonate per rappresentare la giustapposizione dei tempi. È così all'interno della stessa capanna che uno stegosauro, ad esempio, si trova vicino a una festa di compleanno, o che il cadavere di un indiano, assassinato nel 1850, si inserisce nella vita tranquilla di un salotto del XX secolo: l'irruzione della Storia è sempre più o meno una collisione, e la grandezza dello spettro temporale aleggia costantemente sulle esistenze di tutte queste creature appena identificate, il sospetto del vuoto. Cosa potrebbe succedere a un progetto concettuale e critico così strettamente legato alle risorse dei fumetti, trasposto in un film americano da 50 milioni di dollari? Solo Zemeckis poteva immaginarlo, seguendo la sua più personale inclinazione sperimentale. Non importa, da questo punto di vista, se la sceneggiatura adattata da Eric Roth cerchi di ripristinare una parvenza di intrigo, ricostruire personaggi o spiegare alcuni temi. Il bellissimo prologo del film può ben somigliare all'impresa di un lettore un po' inesperto, che si armerebbe di forbici e colla stick per ritagliare e rimontare “in ordine” i tempi sovrapposti; Zemeckis conserva solo un gioco di transizione grafica dal riferimento al fumetto. Non è che non capisse nulla del principio originale, o che sarebbe rimasto intrappolato nei grandi zoccoli dell'adattamento. L’interesse del film è altrove.
Il sogno
L'introduzione di una coppia di “eroi”, interpretati da Tom Hanks e Robin Wright, ci mette sulla buona strada. Le stelle di Forrest Gump raffigurano due archetipi che a prima vista sembrano staccati da un'illustrazione pubblicitaria o, più sicuramente, da un dipinto di Norman Rockwell. La loro storia, di sentimentalismo impenitente, è catturata nell'immaginario come una mosca nella colla: Richard rinuncia ai suoi sogni di artista per una professione più redditizia, Margaret abbandona la speranza di lasciare un giorno i suoceri ed entrambi si trasferiscono, dalla festa alla festa, verso la vecchiaia e la malinconia. A volte si avvicinano alla telecamera (per riprendere un primo piano dell’interno) e dicono qualche parola banale sullo scorrere del tempo (“ il tempo vola “) prima di lasciare il campo. L'ironia non è quindi del tutto assente da questa pseudo-narrativa, il cui dispositivo visivo blocca o sposta gli affetti. Intrecciata con le traiettorie di altri venti personaggi nel corso dei secoli, la vita della famiglia Young sembra più profonda, o più insignificante? L'emozione passa nel battito di queste due possibilità. Si colloca quindi leggermente indietro rispetto ai giochi di identificazione del melodramma. Il suo valore sembra più astratto, il suo emergere meno programmato: nasce grazie a una connessione, e si mescola al piacere dell'attrazione; si direbbe che venga dal passaggio, dalla perdita relativa degli individui, dalla loro distanza tra gli oggetti dell'inquadratura dove scompaiono dolcemente, in ogni momento. Lo sapevamo da allora Contatto che l'occhio di una donna in Zemeckis può contenere il cosmo intero, ma anche quanto appaia fragile questo rapporto con la trascendenza, condizionato da un salto nel mito che nulla garantisce una volta per tutte. Il filo teso tra l'uomo e l'universo, come quello del funambolo La passeggiatatrasforma il caso in destino, ma la sua trama ha la consistenza di un sogno.
Bisogna dire una parola sull'argomento di questo sogno. Si tratta infatti di una “esperienza”, a patto di intendere questo termine nel senso forte: in Quila meditazione sullo scorrere del tempo è soprattutto un'operazione teorica in atto. In uno dei piani più riusciti, Richard (sui vent'anni) finge di credere ai fantasmi per compiacere la figlia, che è entrata nel soggiorno nascosta sotto un lenzuolo bianco. Quando esegue la sua pantomima della paura davanti alla telecamera, lo spettatore può vedere da vicino il volto di Tom Hanks, ringiovanito. Questi lineamenti infantili sono innegabilmente familiari, eppure subentra un inquietudine: prodotto a partire dalle immagini dei suoi vecchi film, raccolte su internet dall'intelligenza artificiale, il volto dell'attore è una sintesi del passato; letteralmente, uno spettro di memoria collettiva. Simili e diversi rispetto ai nostri ricordi, Hanks e Wright scorrono nel film come archivi mutanti. Qui è un universo mentale in cui ognuno si sente a casa per proiettare il proprio film intimo, allo stesso tempo come un vasto territorio dello strano.
Per spettri di spettri
Altre immagini familiari infestano il salotto di Zemeckis, dove il televisore funge da seconda, se non unica, vera finestra. Guardiamo i Three Stooges, i Beatles e l'aerobica; un inventore degli anni '40 progettò persino una sedia reclinabile che somigliava alle leggendarie sedie Chandler e Joey Amici. Che il senso del collettivo passi così attraverso le icone non fa che confermare ciò che già sapevamo della visione zemeckiana della Storia: si tratta di divario tra rappresentazioni leggendarie e percezione dei singoli, e quindi avviene felicemente della “realtà esterna”. Dalle lotte politiche di Benjamin Franklin agli attacchi razzisti della polizia del 21° secolo, il regista conserva risonanze domestiche; sono i fastidi della vita ordinaria a causare i turbamenti più evidenti: il primo Natale di Richard, un gioco di sedie musicali o la perdita di un nastro sono caotici quanto la partenza del giovane fratello per la guerra del Vietnam. In questo dobbiamo senza dubbio vedere, più che un relativismo, il ritorno di quell’antica detestazione del matrimonio e della famiglia scoppiata nei film degli anni Ottanta e Novanta – patria degenerata di Ritorno al futurocoppia orribile di La morte ti sta così bene. Zemeckis non è un regista bozzolo. Vieni a pensarci, Qui è anche un film piuttosto claustrofobico: intrappolato da un desiderio giovanile (“ Vorrei passare tutta la mia vita qui “), passeranno più di trent'anni prima che Margherita riesca finalmente a lasciare il nido.
L'immaginazione orribile non è lontana, perché questo casa dolce casa viene costruito anche un luogo infestato da cui è difficile fuggire, come l'hotel di Splendentesulle rovine di un cimitero indiano. Ma il trattamento critico della storia nazionale non è la principale preoccupazione di Zemeckis. È proprio in questo punto che si mostra francamente idealista. Invece del conflitto temporale che ha presieduto al montaggio sincronico delle pagine di McGuire, il film si concentra sulla continuità e sulla circolazione. Il territorio appropriato delle popolazioni indigene non è un “lato inferiore” o un rovescio oscuro, la faccia nascosta di un sogno da infrangere, ma un anello nella grande cerchia degli abitanti: l'infestazione è pacifica perché tutto comunica, e la madre di Richard potrà guardare la collana di un'antica donna indiana che abbiamo visto poco prima della sua morte con la più perfetta disattenzione. Potremmo trovare l’idea un po’ irenica; bisogna vedere quale energia formale sprigiona, o come la connessione coreografica delle epoche, tra la distanza del punto di vista e l'artificio del decoro osservato, elettrizzi questo sobrio dispositivo. In quel mondo, l'unico vero terrore sarebbe perdere la memoria.