Fin dall’antichità filosofi e storici hanno cercato le origini della pittura, oscure quanto quelle del linguaggio, rimediando al silenzio della storia attraverso la narrazione mitica. Più vicino a noi, agli albori del Rinascimento, si cercava un’origine per il rinnovamento, per la resurrezione della pittura che si manifestò alla fine del Duecento in Toscana, e questo inizio assoluto porta il nome di Cimabue, nato Cenni di Pepi intorno al 1250 a Firenze. Il museo del Louvre gli dedica una mostra eccezionale in occasione del restauro del suo splendido Maestà e l’acquisizione (nel 2023) di La derisione di Cristoun pannello inedito di Cimabue riscoperto in Francia in case private nel 2019 e classificato Tesoro Nazionale.
Un maestro celebrato fin dal Rinascimento, da Dante a Vasari
Citato nel Purgatorio di Dante, suo contemporaneo, Cimabue fu portato ai vertici nel 1400 da Filippo Villani, storico della città di Firenze e dei suoi uomini illustri: Cimabue” il primo, richiamava l’arte di dipingere a somiglianza della natura “. Nel 1481 l’erudito Cristoforo Landino non dice altro nella sua prefazione La Divina Commedia : « Il primo fu dunque Giovanni, fiorentino di nome Cimabue, il quale trovò sia le linee naturali delle fisionomie, sia la vera proporzione che i Greci chiamano simmetria ; e ridiede vita e facilità di gesto a personaggi che gli antichi pittori avrebbero detto morti; ha lasciato dietro di sé una grande reputazione. » Questa fama sarà amplificata da Giorgio Vasari nel suo Vite dei migliori pittoriScultori e architetti italiani (1568). Lo storiografo toscano è anche il primo a citarlo Maestà da Cimabue.
Un capolavoro da Pisa alle rive della Senna
Dipinto intorno al 1280, questo dipinto monumentale (4,24 metri per 2,76) si trovava allora nella chiesa di San Francesco a Pisa, la città più potente dell’Italia centrale nel XIII secolo. Nel 1812, il Maestà fu portato dalle truppe francesi a Parigi, dove fu esposto al Louvre dal 1814. Nello stesso lotto appariva il non meno famoso San Francesco riceve le stimmate di Giottoconservato anche sulle rive della Senna. Dei sedici dipinti citati dal Vasari, solo quattro dei restanti undici sono ancora attribuiti a Cimabue e, tra questi, alcuni, come il Crocifisso di Santa Croce, a Firenze, o gli affreschi della Basilica di Assisi, subirono danni irreparabili. Ciò dimostra l’importanza della pala del Louvre per comprendere la rottura operata da Cimabue con la tradizione bizantina, dominante in Italia per tutto il Duecento.
Cimabue, Crocifisso (prima dell’alluvione del 1966), Chiesa di Santa Croce, 1272-1288 circa, tempera e oro su tavola, 448 x 390 cm, Museo dell’Opera di Santa Croce a Firenze © Wikimedia Commons
Il trono della saggezza: simbolismo e funzione plastica
La forza del dipinto deriva innanzitutto dalla semplicità, dal rigore simmetrico della sua composizione: la Vergine col Bambino in trono, rappresentata in maestosità (da cui il nome di Maestà), è circondato da sei angeli, tre per lato, mentre la cornice è decorata da ventisei medaglioni che ospitano figure a busto. Secondo un ordine coerente con la gerarchia celeste, rappresentano, dall’alto al basso, Dio circondato dagli angeli, dagli evangelisti, dagli apostoli e, alla base, cinque santi tra cui San Francesco d’Assisi. Ma il trono monumentale su cui siede la Madonna è sicuramente l’elemento più intrigante della tavola.
Cenni di Pepo, detto Cimabue (Firenze, 1240 circa – Pisa, 1302), La Vergine col Bambino in maestà circondata da sei angeli (Maestà), 1280-1290, tempera su fondo oro su tavola (pioppo). Museo del Louvre © C2RMF / Thomas Clot
In legno riccamente scolpito, un tempo intarsiato d’oro, questo tradizionale attributo di Maria è una buona chiave per entrare nell’opera. Allude infatti alla teologia mariana che, sulla scia dei concili di Efeso (431) e Calcedonia (45i), considerava la Vergine come il trono su cui sedeva la sapienza divina, in questo caso Cristo. Questo è il motivo per cui veniva spesso chiamata “ la sede della saggezza » (sede della Sapienza). Attraverso questo raddoppio metonimico viene sottolineata la maestà della “madre di Dio”. Anche questo trono, il cui schienale è rivestito da un tessuto arabo decorato con caratteri cufici e naskhi, gioca un ruolo essenziale nell’apparato figurativo e mette in luce le considerazioni di Villani sulla somiglianza con la natura. Rappresentato in prospettiva, si libera letteralmente dalla superficie e il suo volume non solo dona densità alla scena, ma crea anche un legame con il mondo sottostante, negato dal fondo oro, simbolo del divino.
Andare oltre la tradizione bizantina per riunire l’umano e il divino
Ricerca della verità e stilizzazione entrano così in tensione nel campo della pittura. Ma l’irruzione della natura non si limita a questo simbolico accessorio. Sui volti, il rigore della linea è addolcito dalla sottile modulazione del chiaroscuro, che non solo dona volume e matericità ai corpi, ma contribuisce anche alla ricerca espressiva. Perché, al di là del discorso sul posto di Cimabue nella storia dell’arte, sui suoi rapporti con la pittura bizantina da un lato, con Giotto dall’altro, lo spettatore contemporaneo è innanzitutto sensibile alla dolce malinconia che permea le figure della Vergine e gli angeli, abitati dal presentimento della Passione. In contrasto con l’abbagliante fondo oro, il delicato cromatismo, appena esaltato dalle ali scintillanti degli angeli, contribuisce a creare un’atmosfera di meditazione e contemplazione.
Pittore bizantino, Madonna Kahn, 1272-1282 circa, tempera e oro su tavola, pioppo (pannello), abete (cornice) H. 130; L.77 cm. Washington, Galleria Nazionale d’Arte, inv. 1949-7.1, donazione di Otto H. Kahn. Per gentile concessione della Galleria Nazionale d’Arte, Washington
Certamente, il Maestà porta ancora i segni della pittura bizantina, attraverso il gioco grafico di pieghe che risplende nell’azzurro manto della Vergine o il disegno molto stilizzato dei dettagli anatomici. Ma, in un simile quadro, avviene un mutamento radicale che, all’autorità degli Antichi, sostituisce il valore della novità. Cimabue « trionfò sulle abitudini culturali greche, che sembravano passare dall’uno all’altro: imitavamo senza mai aggiungere nulla alla pratica dei maestri. Consultò la natura, animò i volti, piegò le stoffe, collocò i personaggi con molta più arte di quanto avessero fatto i Greci. » Questa analisi, formulata dallo storico Luigi Lanzi alla fine del XVIII secolo nel suo Storia pittorica d’Italia (1795-1796), conserva tutta la sua attualità.
Cimabue, La derisione di Cristo, 1285-1290 circa, dipinto su tavola (pioppo) H. 25,8; L.8 pollici. Museo del Louvre © GrandPalaisRmn (Museo del Louvre) / Gabriel de Carvalho
che il Maestà fu dipinto, con ogni probabilità, per una chiesa dedicata a San Francesco d’Assisi, non è indifferente, se vogliamo andare oltre considerazioni formali e far luce sugli stretti rapporti che l’evoluzione dello stile intrattiene con la spiritualità francescana. Ciò riafferma la presenza di Cristo nel mondo e ci invita a guardare la Creazione come manifestazione di questa presenza. Riafferma così la contiguità del divino e dell’umano. Giotto, allievo di Cimabue, darà l’interpretazione pittorica più compiuta di questa sensibilità.
“Rivedere Cimabue. Alle origini della pittura italiana »
Museo del Louvre, Parigi
Dal 22 gennaio al 12 maggio 2025
Presentazione della mostra Rivedere Cimabue. Alle origini della pittura italiana”
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