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La nostra darija e la loro

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Si tratta di un in dialetto marocchino, doppiato in dialetto egiziano per garantire, si dice, una maggiore apertura al mondo arabo.

Presentato per la prima volta nell’ambito della 45a edizione del Cairo International Film Festival, il suo titolo va – notate la sottile sfumatura – da! “Non farò nulla” ha “Sono più di quello che sono”!!

Non spetta a me mettere in discussione le scelte linguistiche del regista né le strategie di marketing, di promozione e di distribuzione, ma il tema resta suggestivo in un contesto in cui i social network hanno aumentato gli scambi e fatto sì che le persone vedessero e sentissero, istantaneamente, alcuni dialoghi i sordi nel “patois” locale, in particolare tra i marocchini e i parlanti poco comprensivi, o finti tali, provenienti dal vasto mondo arabo, disorientati, per alcuni di loro, di fronte ad un dialetto ridotto allo stadio di sabir incomprensibile.

Non mi soffermerò nemmeno su alcune reazioni dei principali stakeholders, ovvero gli stessi egiziani, ai quali il film in questione sembra destinato principalmente in questa versione, prima che fungere da trampolino di lancio per la sua distribuzione.

Il celebre critico cinematografico e scrittore egiziano Tarek El Shennawi, in un articolo, lancia alcune frecce omicide nella direzione del cinema marocchino e aggiunge, riguardo al pubblico del suo paese, che “il pubblico nella grande sala non crede ai dialoghi che sente, come se si trovasse di fronte a personaggi dei cartoni animati. »

Si privilegia quindi la sottotitolazione scritta in quello che viene chiamato “un dialetto bianco”collocato in un rango intermedio tra il classico e il vernacolare.

Basta fare un lavoro educativo stimolando l’orecchio a familiarizzare con la lingua, e la mente, a esplorare altre costruzioni mentali e altri universi culturali!

Tutto è stato detto sulla traduzione e sulla complessità del processo che va oltre la semplice trasposizione di parole da una lingua all’altra per comportare aggiustamenti che possono alterare l’originale.

Non per niente il vecchio adagio decreta senza mezzi termini: “traduttore traditore“, O, “Traduttore, traditore!” O: “Tradurre è tradire”, se preferisci!

Ciò è tanto più folle in quanto si tratta di dialetti entrambi derivati ​​dall’arabo e chiaramente evolutivi nel tempo sotto l’influenza di diversi fattori.

Un po’ come se un film argentino, colombiano o messicano fosse doppiato in Spagna o un film girato nella “provincia di Belle” fosse doppiato in francese in Francia.

Ricordiamo le reazioni suscitate in seguito alla messa in onda su Canal+, sottotitolata, della miniserie del regista quebecchese Xavier Dolan, “La notte in cui Laurier Gaudreault si svegliò”adattato dall’omonima opera teatrale del drammaturgo Michel Marc Bouchard, e la cui versione doppiata è stata assimilata da alcuni giornalisti del Quebec a “sciocchezze», «una negazione della Francofonia», «un insulto al francese parlato in Quebec»…

Tabarnak!!! Immaginiamo lo scalpore se la serie fosse stata doppiata!

Normale! Senza darlo a vedere, la questione solleva la questione fondamentale dell’identità, anzi dell’autorità, mettendo in discussione il pregiudizio secondo cui un dialetto tra gli altri viene considerato come standard di riferimento.

Tutto dipende, in ogni caso, dall’angolo in cui ti posizioni. Perché interrogata sulle virtù di questo doppiaggio del film marocchino, una famosa attrice egiziana ha giustificato il processo e ha spiegato la difficoltà di comprendere la nostra darija per la presenza di parole in “farançaoui».

Ciò dimentica che tutti i nostri paesi hanno forgiato una lingua viva al crocevia di diverse culture, affermandosi come forma di resistenza al formalismo dominante e come spazio privilegiato di comunicazione e creatività.

Si dimentica anche che se il dialetto marocchino comprende effettivamente (oltre alla fondamentale parte amazigh) qualche parola in francese, portoghese o spagnolo, allo stesso modo l’egiziano si è arricchito del copto, del greco, del persiano, del turco, dell’inglese, dell’italiano e del Anche farançaoui

In blocco, ricordiamo alcune parole che profumano di terroir ma la cui origine è altrove: tarabeza, fanous, faraoula (termini di origine greca per designare rispettivamente la tavola, la lanterna o la fragola); efendi, hanem, abla, khawaja, osta, agzakhanah, oda, arika, baqchich (tutti dal mondo turco). Dal francese: abajoura, autobis, sottoscrittore, diploma, occasione…; o ancora, dall’italiano: bagno, guantone, balyatcho (derivato da Pagliaccio nel senso di clown e saltimbanco)…

Per quanto riguarda il copto, considerato “la fase finale della lingua egiziana faraonica» e divenne la lingua liturgica dei cristiani d’Egitto, oltre alle sue influenze naturali, sintattiche e grammaticali, lascia il nome ad alcune città dell’Egitto come Fayoum (Phiôm, “Terra del lago”), Assiut, Assuan o Damanhur…

Esiste quindi una notevole differenza tra “fosha“, specifico della scrittura e del “amiya», rientrando nel dominio dell’oralità e presentando numerose particolarità fonetiche rispetto all’arabo classico e ad altri dialetti arabi.

Tra gli altri esempi: la consonante “qaf” è quasi aspirata nella pronuncia in Egitto, per dare un suono simile alla lettera a; mentre la j diventa una g, giustamente chiamata “jim egiziano”. Entrambi i casi, illustrati in una frase, si leggerebbero più o meno così: “Inta gamil awi awi!”. Non molto foneticamente e grammaticalmente ortodosso, come puoi vedere!

E quando la diva Oum Keltoum, “Astre d’Orient”, ci incanta con il suo meraviglioso canto dal titolo davvero arabo, «Alf lila o Lila» e sorge a «Izzy»ripetuto come un’eco ammaliante, nessuno romperà l’incantesimo e si informerà sulla posizione esatta di questo termine nei dizionari linguistici.

Insomma, se il dialetto egiziano è il più compreso e il più influente nel mondo arabo, non è per una presunta “purezza” o per una maggiore vicinanza all’arabo classico, ma piuttosto perché è l’elemento chiave della cultura popolare, precedentemente diffuso attraverso i media audiovisivi, la musica e il cinema.

Sta a noi imporre con orgoglio la nostra cultura invece di sacrificare la diversità sull’altare della standardizzazione o addirittura della cancellazione.

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