la ondata di speranze, paure, fantasie e allegorie tecnologiche legate alla comparsa dell’intelligenza artificiale generativa (AI) sarebbe affascinante da studiare per noi ricercatori, se queste preoccupazioni non ci toccassero anche un po’.
Perché l’intelligenza artificiale spesso fa paura. È infatti normale temere che le macchine superino le nostre capacità cognitive, dopo aver da tempo superato le nostre capacità fisiche. La paura che emerge oggi è quella della perdita di controllo, quella dell’uomo sulla macchina, quella che colpisce la nostra cognizione, la nostra personalità, la nostra identità.
Non è estraneo alle vertigini che proviamo di fronte alle malattie neurodegenerative, perché la macchina opprimente minaccia anche la nostra capacità di pensare, inventare e agire. Questo segnerà la fine dei romanzieri, del giornalismo, della pubblicità e del design? La fine di registi, fotografi, ricercatori, insegnanti? Ma cosa ci resterà?
Deviare dagli schemi
Qualcuno dirà che questo era prevedibile, sostenendo che alcuni studi hanno dimostrato che la creatività può essere compresa statisticamente, e quindi essere modellabile e riproducibile. Tuttavia, la facilità di accesso e di utilizzo degli strumenti per generare testo, immagini, musica o video riflette fortemente questi problemi. E questo continuerà perché l’intelligenza artificiale generativa beneficia di massicci investimenti che moltiplicano continuamente le sue capacità di processo. Il cappio quindi si stringe. Ma stiamo parlando della stessa cosa? Non esiste una differenza fondamentale tra la creatività umana e la creatività algoritmica?
Solo pochi mesi fa, uno studio dell’OCSE indicava che l’uso di strumenti basati sull’intelligenza artificiale consentirebbe agli esseri umani di mettere in risalto alcune delle proprie qualità, ovvero l’empatia e… la creatività. La creatività è la nostra capacità di essere imperfetti, imprevedibili e talvolta di deviare da schemi predefiniti.
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