Gli ultimi giorni di Luigi XVI e Maria Antonietta davanti al patibolo. Odiato e affascinante allo stesso tempo.
Cosa pensa un dio quando si rende conto che sta per morire? Strutturato in tre scene (“Gli dei”, “gli uomini”, “i morti”), ecco la traiettoria metafisica ma anche psicologica in cui ci conduce il regista italiano Gianluca Jodice. Sondare lo stato interiore di chi ricade sulla Terra e scopre improvvisamente la materialità della propria carne.
Chi altro potrebbe personificare questi dei cacciati dall'Olimpo se non Luigi XVI e Maria Antonietta, la coppia reale maledetta per eccellenza? E chi altro potrebbe interpretarli se non Guillaume Canet e Mélanie Laurent, due figure del cinema francese tanto adorate quanto odiate?
Crudo nella rappresentazione del popolo
Dobbiamo subito dire l'estrema antipatia provocata da questo film sotto forma di una grande riabilitazione della coppia reale, immersa in un'ideologia profondamente controrivoluzionaria. Ispirato ai taccuini di Cléry, ultimo cameriere di Luigi XVI nella prigione del Tempio, Il diluvio racconta gli ultimi giorni della famiglia reale, dall'arresto all'esecuzione pubblica del reggente.
Crudo nella rappresentazione degli attori della rivoluzione – e quindi del popolo -, ritratti per lo più come bestie sporche e insensate, stupratori e assetati di sangue, il film è addirittura disonesto quando tenta di dire che il processo a Luigi XVI sarebbe quella di un uomo presente nel momento sbagliato nel posto sbagliato, e la cui morte sarebbe esclusivamente simbolica e interverrebbe a riparare 1.000 anni di sottomissione del popolo alla monarchia (sfuggendo volontariamente i 33 capi d'accusa, tra cui tradimento e associazione a delinquere contro lo Stato del mandante della fucilazione del Campo di Marte).
Dipinti apocalittici alla fine del regno
È quindi senza mai tralasciare il carattere revisionista dell'opera che dobbiamo guardare Il diluvio per quello che è: la storia di un'apocalisse, dell'annientamento di un mondo. Quando non descrive una psicologia ordinaria (la lite dei due coniugi in cima alle mura del Tempio, l'enorme fallimento del film), il lungometraggio evoca al meglio la trilogia sul totalitarismo di Sokurov, e più in particolare Il sole (2005) sull'imperatore giapponese Hirohito.
Questi stessi dipinti apocalittici li ritroviamo alla fine del regno, questi frammenti grigi e sbiaditi di dei riportati violentemente sulla Terra per essere sottoposti alla giustizia umana. È in questa dimensione che si verificano le visioni più forti del film. Come questa immagine della corte reale tenuta isolata dietro un cordone sanitario dalla Guardia Nazionale, a terra sulle lastre di marmo ghiacciate di un corridoio che non finisce mai, come un'eco macabra della Sala degli Specchi di Versailles.
“E dopo?“
Oppure, nella scena più suggestiva, quando Luigi XVI discute con il suo carnefice, Sanson, e lo interroga metodicamente sulle diverse fasi della sua imminente decapitazione. La forza di questa scena risiede tanto nell’impossibilità dell’ex reggente di materializzare filosoficamente la sua finitezza, quanto nel “E dopo?” che dice al suo carnefice quando descrive l'immagine della sua testa che cade nella cesta.
È allora l'espressione smarrita del re a occupare l'intero schermo, rendendosi conto che l'evento sarà celebrato come una festa e che, presto, i cannoni suoneranno in onore della sua morte. Una vertigine interiore che Guillaume Canet, nonostante si nasconda dietro chili di protesi, riesce a restaurare: il suo paradiso perduto renderà un domani più luminoso.
Il diluviodi Gianluca Jodice, con Guillaume Canet, Mélanie Laurent, Aurore Broutin. Nelle sale dal 25 dicembre.
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