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“Rabia” di Mareike Engelhardt

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Tratto dal sito Il caffè educativo

27 novembre 2024

Lettura suggerita da André Cloutier

Scegliendo di rappresentare nel cinema la ‘madafa’ di sinistra memoria (mai fotografata né filmata all’epoca), suggerendo le porte chiuse di un luogo di reclusione, oppressione e condizionamento alla sottomissione delle donne, un film soffocante spaziale diretto con sguardo ferreo pugno di una donna fanatica, la regista Mareike Engelhardt, tenta di rispondere alla domanda iniziale e ne solleva molte altre, intime e universali. Ne formula la portata in questi termini: “ Non è un film sull’Islam, sullo jiadismo ma sul reclutamento di massa, sui meccanismi di disumanizzazione…”. Da dove deriva, infatti, che Jessica possa scegliere la strada dei carnefici?

Alle origini la finzione, il contesto storico, le testimonianze, le competenze

È stato in seguito alla presa della città di Raqqa nel 2014 che lo Stato Islamico ha imposto la legge della Sharia a tutti gli abitanti e ha lanciato un appello da tutte le parti a sostenere la creazione di un “Califfato”. Mentre Daesh (un altro nome per l’organizzazione terroristica islamica) consolida il suo controllo su Raqqa in Siria in guerra, migliaia di giovani radicalizzati (in pochi mesi per alcuni) da tutto il mondo, con background diversi, si uniscono a questo “paese” idilliaco nell’illusione dell’impegno totale e della promessa di una nuova vita.

Ragazze, a volte giovanissime, perdendo i sensi, partono di nascosto dai genitori verso una terra sconosciuta, accecate dall’assolutismo del loro credo. Un’immaginazione romantica (arrivando a desiderare come marito un combattente djiade) e un’irreggimentazione ideologica tale che alcuni non se ne sono mai andati, anche quelli che sono tornati nel Paese d’origine.

La natura totalitaria di questa folle impresa criminale e il singolare coinvolgimento delle donne al suo interno portano la regista a un’indagine approfondita su ciò che lei chiama “l’incomprensibile”. Incontri con donne che erano rimaste per un certo periodo a Raqqa con lo Stato Islamico e che sono rimaste, dopo il loro ritorno, piene di odio verso il prossimo e spirito di vendetta, presenza alle udienze dei processi di alcune ragazze presso il Tribunale di Parigi, controllo incrociato di informazioni riguardanti la condizione e lo stile di vita delle donne nelle ‘madafas’, indagine sulla personalità della famigerata Fathia Mejjaati (conosciuta come Oum Adam), una rigorosa dominatrice e sadico, ancora oggi in fuga, che ha ispirato il personaggio di Madame (magistralmente interpretato dalla grande Lubna Azabal), si è avvalso della competenza di due specialisti del jihadismo femminile, Céline Martelet e Edith Bouvier, che hanno arricchito con il loro sapere l’opera della attrici durante la preparazione. Senza dimenticare gli scontri controllati con gli ex “residenti” di questi luoghi di reclusione e di indottrinamento.

Dal sole radioso all’oscurità, estetica della luce, pregiudizi

Sull’aereo che li porta a Raqqa, Jessica (Megan Northam, attrice impressionante per la sua presenza e la potenza della sua recitazione) e Laïla (commovente incarnazione di Natacha Krief) contemplano il sole splendente sopra le nuvole bianche, con sorrisi radiosi e con le risate delle bambine alludono al paradiso che le attende. Le nuvole si fondono in una massa cremosa che invade tutto il nostro campo visivo.

Poi, prima di atterrare, le nuvole cambiano colore. Ed entriamo con loro in una casa a forma di fortezza e subito cogliamo i primi segni di un quadro di schiavitù, segni che i nostri due entusiasti amici non vedono.

Seguiamo così i rituali imposti all’interno di questo strano gineceo: le donne tra loro, su ordine, vengono poco a poco spogliate della loro vecchia identità (e dei loro abiti originari) per essere preparate sia psicologicamente alla sottomissione ai precetti religiosi e ai divieti decretati dall’Islam stato; e fisicamente (cambio di biancheria intima per seducente seminudità e trucco, presto mascherato sotto un velo che copre corpo e capelli) per diventare oggetti sessuali in balia degli impulsi di guerrieri e futuri sposi; mariti scelti per loro per un incontro di poche ore al ritorno dal fronte.

Un primo contatto che può trasformarsi, dopo alcuni preliminari (togliti il ​​velo! Vuoi figli? Ti piacciono le albicocche?), in un tentativo di stupro come Jessica ha sperimentato presto.

Una dura prova che la porterà a respingere brutalmente l’aggressore e a fuggire. Tuttavia, il preludio ad una grande inversione di tendenza. Invece di uscire dalla sua cecità, si sposta gradualmente nel campo della dominatrice, fan delle punizioni corporali, dei diktat umilianti e di altre ingiunzioni al rispetto della superiorità maschile, compresa la violenza domestica; un’amante fanatica e manipolatrice che la addestra affinché diventi a sua volta un’arma per addestrare i nuovi arrivati.

Nel tempo, in un’atmosfera di guerra in cui il campo di battaglia (e i morti) resta fuori campo così come la violenza fisica contro le donne all’interno è esclusa dall’inquadratura anche se si sentono colpi e urla attutiti, il bianco del cielo sopra la fortezza e il candore ocra della distanza senza uomini armati visibili scompaiono sempre più.

Poi le luci indirette e velate che scendono dalle finestre e il chiarore sommesso degli spazi interni della madafa fino agli appartamenti di Madame, dominano un tempo più luminoso e spazioso. Davanti ai chiaroscuri di luci distorte nel cuore di questo luogo da cui è vietato uscire sotto la luce delle stelle, la foresta di veli neri, quelli delle donne oppresse, si scioglie nel nero dei bombardamenti che annunciano la caduta di Raqqa, fino l’ingresso nell’oscurità.

Lo spazio mentale di Rabia e l’interrogatorio universale

Con Agnès Godard, direttrice della fotografia, e Daniel Bevan per la scenografia, il cineasta crea così uno spazio mentale favorevole alla rappresentazione della “rivoluzione” intima che avviene in Jessica, divenuta Rabia grazie a questo passaggio al ruolo dei carnefici. campo. Attraverso questa ricerca formale, la regista tenta di darci accesso, senza compiacimento, al percorso di Rabia e di altre donne che le somigliano nel rapporto padrone/schiavo, nell’ambiguo rapporto con il dominio.

Mareike Engelhardt rivendica la sua origine tedesca e la sua appartenenza “all’ultima generazione che ha conosciuto coloro che hanno partecipato a uno dei peggiori crimini dell’umanità”.

Pur rifiutando chiaramente le scorciatoie tra terrorismo islamico e nazismo, basata su una storia immaginata con lo sceneggiatore Samuel Doux, questa finzione tagliente e agghiacciante ci costringe a una riflessione profondamente inquietante alla quale il regista ci invita così: “Che cosa ci fa volgere dalla parte sbagliata?” lato nel corso della vita? Come è possibile lasciarsi assorbire da un sistema che ci toglie umanità? E soprattutto perché la gente resta lì?’.

L’ultima scena del film vede Jessica/Rabia, con un bambino in braccio, ridotta a una sagoma lontana e minuscola, sul punto di confondersi con il suolo arido di una terra senza vita.

Samra Bonvoisin

“Rabia”, film di Mareike Engelhardt – uscito il 27 novembre 2024

Festival e Premi 2024: FFA, Angoulême (Concorso), Deauville (Premio Ornano-Valenti), Valenciennes (Premio della Giuria), War on screen (Premio del Pubblico), Arte Mare (Premio del Pubblico e Menzione Speciale Giuria Giovani), Effervescenza di Mâcon ( Premio del Pubblico).

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