Dopo spettacolo, un “dopo” che a volte è l’“adesso” di un “prima”.
Il Prima-Ora-Dopo si intrecciano nel pallottoliere della lotteria delle nostre vite. È difficile scegliere il trio vincente nell’ordine giusto, garantendo la felicità, o nella migliore delle ipotesi un benessere che riduca l’impatto negativo degli eventi mondiali. Il nostro qui e ora, soprattutto quello attuale, non può lasciarsi andare al passato, navigando tra un “era meglio prima” e la lampante paura di un “Dopo apocalittico” dal sapore mortale di déjà vu, ignorando il reiterato monito del “Mai più”. !’ “.
Il collettivo Advantage of Doubt trasforma le sue paure del domani in buffonate di oggi, attingendo alle loro esperienze passate e agli intellettuali che hanno plasmato il loro pensiero. Red, un ex scimmia diventata uomo, è il protagonista di uno spettacolo pubblico. Espone la sua trasformazione, accompagnata da una canzone magistrale sotto forma di grido per i suoi ex compagni di gabbia: i pidocchi. Tra distopia, riferimento kafkiano e colpo di stato documentaristico: “Prima mettevo la facciata, ora prendo l’ascensore. » Eccoci sul treno dell’assurdo. Gli attori, tutti bravissimi, recitano la loro recita nel grande cabaret dell’esistenza. Da questo susseguirsi di assoli e improvvisazioni, la derisione emerge vittoriosa, ma la fluidità della drammaturgia è indebolita, le articolazioni prive di una certa leggibilità per il momento. Ma è così fastidioso? Ciò suggerisce il progresso fatto e quello che resta da fare, e dimostra soprattutto l’autenticità dell’approccio collettivo senza un regista seminascosto che finirebbe per smussare tutto, per un risultato finale molto pulito. Il processo creativo trabocca da questa mostra ancor più dei temi che affronta e che finiscono per trovare una concordanza. Vita, morte, teatro… non sono il dubbio e l’assunzione di rischi i principali fattori che ci portano a questo status di sopravvissuto?
“Pensare è esercitare la mente andando in visita. »
Travolti da questo flusso di parole sature, crude, disordinate, da questo traboccamento depositato, gli spettatori non sanno più bene chi ha scritto o detto questo o quello, come le molteplici informazioni con cui sono quotidianamente bombardati attraverso vari canali, parassitando il filtro personale di i loro pensieri. A differenza di alcuni spettacoli che richiedono così tanto da uno spettatore attivo da non riuscire a fornire contenuto al loro pezzo, After show offre spunti di riflessione. Senza necessariamente una posizione definita, ma ancorato al dubbio e alla filosofia, alimenta il movimento perpetuo della riflessione. Questo pezzo ha un effetto d’insieme, proprio nell’ottica del “dopo spettacolo”. Quella in cui contiamo ciò che ci resta, in immagini e contenuti.
Conosciuto per analizzare il modo in cui arte, politica e intimità intrecciano le nostre vite al di là di noi stessi, il collettivo L’Avantage dudoubt produce questo effetto magico: senza aver visto il limite tra la nostra esitazione ad amare o a interessarci, eccoci nello spettacolo, nella felicità totale di un’esperienza che ci cambia e ci sconvolge. Attraverso il filtro del sensibile, dell’individuo, i cinque attori ci portano a riappropriarci degli eventi nella loro universalità, non più in un approccio ragionato, ma in risonanza. Le prove ci sono: noi ci siamo. Abbiamo fatto il nostro cammino insieme, abbiamo trovato la strada evitando di cadere nelle insidie…
Aggiungi vita ai giorni
“Guardare la bellezza è guardare la morte”, dice Visconti, ed è di questo che parla questo pezzo, al contrario. Da questi morti ritrovati, da questo passato dissotterrato, nasce una poesia, una bellezza che conduce a un momento di grazia in cui siamo completamente immersi, sospesi sopra il nero. I cinque sguardi degli attori di Il vantaggio del dubbio si uniscono per scoprire, non più un significato in questo mondo – troppo tardi per quello – ma una breccia dove alcuni frammenti di purezza si sarebbero riparati da terrori, cataclismi, massacri. Una bellezza che emergerebbe da questo mondo così nero, sempre più nero, così nero che è stato creato un colore a sua immagine: il Vantablack. Cercando di sollevare il velo di questa oscurità, ritornano alle origini. Nadir Legrand non mima l’accento del Sud, ritrova le intonazioni del suo set di Valensole, che condisce con battute e frasi sensibili e pittoriche: “Cerco nel mio entroterra” o referenti: “La gioia resta. » La bellezza sta in questa scrittura, un misto di scrittura teatrale e testi dal suono lirico, romantico, bello e stimolante.
Morte, sei lì?
E quando la porticina del passaggio nel muro della morte si apre, avviene la resurrezione delle figure amate che invadono la scena. Guidato dalle bussole che hanno accompagnato i loro percorsi personali e professionali – un Bruno Latour che si propone di spiegare la rivoluzione cosmologica, una Hannah Arendt, molto oleosa – lo spettacolo trova qui il suo equilibrio, dando senso a queste visioni corali che faticavano a riunirsi in nostre teste e che, tutto sommato, rivelano una costruzione drammaturgica avventurosa in cui si svela il percorso del processo di creazione di un collettivo, senza paura del vuoto o di mostrare le condizioni perché esso possa prendere senso.
Poi arriva la morte. Una morte maestosa, imponente e meringata à la Castellucci, che, lasciando cadere la maschera, ci taglia in due, come la falce della grande dama, con le viscere scoperte. Siamo soffocati dalla poesia, dalla tenerezza, dall’umorismo nero. Invece di toglierci la vita, questa morte incarnata con così tanta potenza, tenerezza e ingegno da Maxence Tual infonde in noi l’energia vitale per sfuggire alla rassegnazione e alla pigrizia intellettuale.
Questa vedova nera ci tende la mano, gettando da parte il lenzuolo del comune per coprire la morbida coperta del singolare; ognuno può così farsi il proprio letto in mezzo alla feccia del mondo. E andare a letto sveglio, quasi felice, almeno, meno timoroso e momentaneamente fuori dall’impasse.
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