Nell’ambito della Stagione lituana in Francia, la Cineteca del documentario, aprendo una finestra su una produzione poco esposta, dedica una retrospettiva completa al cineasta Audrius Stonys, i cui cortometraggi e lungometraggi saranno proiettati in sua presenza nei cinema del Centre Pompidou, a Parigi, fino a lunedì 18 novembre. Poco conosciuto, anche nel mondo degli amanti del cinema, il suo lavoro, che ha vinto numerosi premi in festival internazionali, è di rara e potente bellezza e merita una deviazione.
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Nato nel 1966 a Vilnius, Stonys si forma nella Lituania ancora appartenente all’Unione Sovietica e, dopo una fuga a New York con il connazionale in esilio Jonas Mekas (1922-2019), figura cruciale dell’underground, tornerà alle origini in un Paese tornato indipendente, come quelli della fascia baltica, a cavallo degli anni Novanta.
Stonys pratica una forma di documentario che non si accontenta di denunciare la realtà, ma ricerca, qualunque cosa filmi, l’anima del mondo dietro le sue apparenze effimere e fluttuanti. È la mistica del Grande Nord che si esprime attraverso i suoi film, quella di vite umili riportate nelle vaste distese, di una natura nebbiosa dai riflessi magici, di una luce polare dal pallore malinconico, eco ovattata di un mondo altro. . Una sensibilità scintillante, uno sguardo di grande finezza plastica, un comprovato senso del momento sono responsabili della creazione del collegamento.
Poesie visive pure
Una divisione in due periodi è evidente nel lavoro di Audrius Stonys, che inizia con la pellicola per poi, a cavallo degli anni 2000, passare al video digitale, non senza che il suo approccio ne risenta. I suoi cortometraggi in bianco e nero, le cui immagini telluriche sembrano provenire dal profondo dei secoli, sembrano a prima vista puri poemi visivi. In Antigravitazione (1995), un villaggio lituano immerso sotto una neve mortale è raffigurato grazie agli edifici che si innalzano verso il cielo: il campanile di una chiesa in riparazione, un ponte che domina la valle, il tetto di un edificio dove le persone sono indaffarate lavoratrici. Il regista realizza vedute aeree, accentuando angoli alti e bassi, per catturare la condizione umana sospesa tra cielo e terra, aspirante all’elevazione, ma sempre riportata al fondo. Secondo Stonys nel documentario c’è un po’ di Tarkovskij.
In lui il soggetto non si pone mai subito, ma si cristallizza scatto dopo scatto, quasi incidentalmente, nel modo in cui i blocchi di realtà si confrontano. Quindi, dentro La terra dei ciechi (1992), visioni alternate di un uomo su una sedia a rotelle, di una contadina nella sua casa, entrambi affetti da cecità, ma anche di una mucca che presto sarà portata al macello. Tra loro, il montaggio stabilisce una coalescenza poetica, e qualcosa circola, come un lamento interiore, trasmesso da una strana colonna sonora fatta di respiri o echi lontani.
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