Ci sono libri del genere che ti fanno battere il cuore un po’ troppo forte solo vedendone il titolo sulla copertina. In effetti è falso, sono rarissimi, meno delle dita di una mano. Naturalmente, in questo caso, l’eterno e meraviglioso bordo blu su uno sfondo bianco immacolato di Éditions de Minuit non è per niente nell’effetto prodotto. Proprio come il mito celato in questi sette personaggi – apostrofo compreso – che Marguerite Duras ha portato nella leggenda di un’infanzia infranta e tuttavia piacevole, “l’amante”.
Ma questo leggero tremore dell’essere che sorge incontenibile dentro di sé è dovuto ad altro. Forse con la pericolosa promessa di un confronto con il ricordo dell’emozione provocata dalla prima lettura, e poi quelle successive, tutte quelle successive, non le abbiamo mai contate, si confonde con la vita, con la nostra vita, non le abbiamo contate proviamo a riprenderci, ci siamo persi, ritrovati e perduti di nuovo; allora accarezziamo il libro, crediamo di avere una scelta, non è il momento, ci porterà troppo lontano, lo mettiamo giù con paura, pfffff, come se questo pudore ci proteggesse da noi stessi, è troppo tardi , troppo tardi, non ha senso, una volta assaggiato, fingere di poter sfuggire a questa brutalità, questa ferocia, questa tristezza, questo desiderio, questa disperazione, anche questa speranza, poiché ce n’è una, nonostante tutto, una sola, immensa, ossessiva: la scrittura. Ah, scrivere, certezza fastidiosa e consolante che, per Duras, agisce, quasi in ogni pagina, come uno squarcio azzurro nel cielo pesante dell’infanzia. “ Scriverò libri. Questo è ciò che vedo al di là del momento, nel grande deserto sotto i cui lineamenti mi appare la portata della mia vita. »
Ritorno letterario a scuola: “Bisogna amare bene per scrivere” (Yasmina Reza)
Intanto torniamo con lei per un tour, finalmente una traversata: l’insuperabile – e insuperabile – passaggio di un traghetto sul Mekong con la ragazzina dal cappello da uomo, dell’insolenza e dell’infanzia (15 anni e mezzo , ricordate), con le scarpe di lamé e l’abito di seta portato fino alla trasparenza. Questa foto che non esiste, Duras è rimasta impressa nelle nostre anime. Come queste parole che finiscono per fare il suono, roccioso e irresistibile, del torrente di intensità da esse raffigurato: “ Mi chiama puttana, schifoso, mi dice che sono il suo unico amore, ed è quello che ha da dire ed è quello che diciamo quando lasciamo che accada, quando lasciamo che il corpo faccia e cerchi e trovi e prende quello che vuole, e lì tutto va bene, non ci sono rifiuti, i rifiuti sono coperti, tutto va nel torrente, nella forza del desiderio. »
Jane March in “L’Amant”, il film di Jean-Jacques Annaud tratto dal libro e uscito nelle sale nel 1992. (Credits: LTD/John Foley/opale.photo)
È questa, proprio questa, quasi in senso letterale, la “scrittura comune” alla limpidezza della quale Duras tocca in L’amante. E che lei identifica e battezza così, precisando che dovevano essere morti tutti, la madre e i due fratelli: “ Anche per i ricordi è troppo tardi. Adesso non mi piacciono più. Non so se mi piacevano più. Li ho lasciati. Non ho più in testa il profumo della sua pelle né il colore dei suoi occhi nei miei occhi. Non ricordo più la voce, tranne talvolta quella della dolcezza con la stanchezza serale. Non sento più le risate, né le risate, né le grida. È finita, non ricordo più. Ecco perché adesso ne scrivo così facilmente, così a lungo, così allungato, che è diventata scrittura comune. »
In L’amante – ed è ciò che dà questa consistenza fatale a un libro oggi tradotto in quarantaquattro lingue – la scrittura riesce nell’impresa di investire la madre, appunto, ma anche il resto, tutto il resto: la disgregazione dell’infanzia, la mancanza di soldi, l’amore che facciamo e l’amore che non diciamo, il silenzio, le percosse, la carne, il male, il cielo equatoriale, il famigerato quartiere di Cholen, il corpo dell’amico pensionato Hélène Lagonelle, ecc.
“Scrittura comune”, quindi. Guarda come dalla semplice unione di queste due parole emerge questo abbagliante concetto di accuratezza. Lo spiega Marguerite Duras in alcune interviste giudiziosamente ripubblicate dopo il libro. Al libraio Hervé Le Masson, assicurò, in Il nuovo osservatore del 28 settembre 1984, vale a dire venticinque giorni dopo la pubblicazione del L’amante: « Scrittura comune, […] è quello che non si mostra, che corre sul crinale delle parole, quello che non insiste, che ha a malapena il tempo di esistere. »
L’Amant Marguerite Duras, Éditions de Minuit, 192 pagine, 19 euro. (Crediti: LTD)
Duras è mai più commovente di quando parla di scrittura, cosa che fa incessantemente? È una grazia (parola che le si addice suo malgrado) ritrovarla, ascoltarla. “ Cos’è la scrittura? Qual è questa strada parallela, questo tradimento fondamentale di tutti e di se stessi? Qual è questa necessità mortale? » chiese alla critica letteraria Marianne Alphant – intervista, riprodotta anche qui, pubblicata il 4 settembre 1984 inLiberazione. Che bella iniziativa delle Éditions de Minuit aver arricchito la ripubblicazione del testo – dono a se stesso – con quattro delle interviste rilasciate dallo scrittore in occasione dell’uscita del libro e all’indomani del sacramento da parte dell’Accademia di Goncourt.
“Scrivere è meno difficile che ballare” (Emily St. John Mandel, scrittrice)
Bisogna vedere come, quando la stessa Marianne Alphant fu inviata appositamente a Trouville per raccogliere i commenti dell’appena incoronato vincitore (inLiberazionedel 13 novembre 1984), quest’ultimo ferì:“I Goncourt mi hanno dato questo premio perché credevano che fosse possibile darmelo. Perché non riuscivano a trovare un motivo per rifiutarmelo. Perché non si sono trattenuti dal darmi il prezzo. Nella società vecchia e recente, il prezzo veniva dato per abitudine. Non l’abbiamo dato, anche per abitudine. Il premio è stato assegnato alle storie. Alle persone che erano giovani. Il Goncourt era diventato un premio per incoraggiare una certa letteratura. All’improvviso, penso che si siano detti: “Perché non dare il Goncourt al libro che merita il Goncourt?” […]
Marianne Alphant:Quindi ancora questa famosa insolenza?
Margherita Duras:Sempre, sì. Ma stai confondendo, è narcisismo. »
Lo adoriamo, lo adoriamo, lo adoriamo.