Bipolare da 45 anni – su Songs of a Lost Word dei Cure

Bipolare da 45 anni – su Songs of a Lost Word dei Cure
Bipolare da 45 anni – su Songs of a Lost Word dei Cure
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Bipolare da 45 anni – in poi Canti di una parola perduta de La cura

Di Arnaud Viviant

Ascolto il disco. Una volta. Due volte. E anche tre per rassicurare il mio mondo. Tanto che da esperto posso certificarlo Canti di un mondo perduto è un ultimo disco falso. Per fortuna un bel fake, quanto più rassicurante possibile, dove Robert Smith e i Cure persistono nel loro essere, come dovrebbero.

Avremmo dovuto subito diffidare di un gruppo punk o post-punk che avesse deciso di chiamarsi The Cure, ovvero dei “No Future” in fase di remissione. Guarigione (l cura) è forse l'unica vera malattia del bipolare. Ma è serio. La cura è più grave della malattia: questa è la diagnosi che il bipolare pone sempre su se stesso e sulle sue condizioni di esistenza che ormai si ostina a falsificare da solo come un adulto.

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E qui, ad esempio, il nostro modello di paziente immaginario, Robert Smith, pubblica un nuovo album dopo sedici anni di silenzio. E quarantacinque anni dopo il suo ingresso sul piccolo palcoscenico delle nostre vite. Questo non ha senso. Sappiamo una volta per tutte che sedici anni di silenzio, non più di diciassette secondi di rumore, non avranno mai il minimo significato in un certo senso. Einstein sulla cagna.

Dalla sommità delle sinusoidi di Canti di una parola perdutamezzo secolo di disturbo bipolare ci guarda con completo disincanto. Uno di quei canti di rovine fumanti che le immagini di oggi, riprese dai droni (Smith dedica loro una canzone, non delle migliori) ci insegnano a guardare in faccia senza battere ciglio e nemmeno pensare ai cadaveri dei bambini e dei loro genitori che, sotto, menzogna.

Girandosi lentamente, come ha imparato a fare il boomer avaro di gesti bruschi, questo nuovo disco dei Cure costringe l'adolescente della metà degli anni '70, cresciuto nella Francia liberale carceraria di Giscard, a chiedersi perché aveva decise che The Cure sarebbe stato figlio banda. Forse c'era già, contrariamente alle apparenze, un vero movimento di speranza; una spinta per la vita ben mascherata sotto il rossetto e il mascara gocciolante di Robert Smith.

L’offerta era allora molto superiore alla domanda. L'anno di Uccidere un arabostavamo appena uscendo dall’ondata punk in cui un accademico americano qualche anno dopo avrebbe visto un’estensione del situazionismo. Perché no ? Come se Françoise Giroud fosse stata una critica rock, o come se non avessimo più idee di un filosofo surfista, i gruppi emersi dalle ceneri del movimento punk, questo secondo Great Fire, furono chiamati “new wave di Londra”. dopo quello del 1666.

In questo confuso artistico che è l'adolescenza, e attraverso uno di quei questionari a scelta multipla che cominciavano ad affermarsi nelle scienze morbide, ci è stato improvvisamente chiesto di decidere tra il nichilismo dei Sex Pistols e poi quello di Public Image Ltd, il Sandinismo dei Clash, il sado-leninismo degli Stranglers o anche il fastidioso ronzio dei Buzzcoks, questi letterati del punk. Per parlare, ovviamente, solo degli inglesi. Sebbene questi “gruppi” (termine che designava molte cose contemporaneamente nel nostro mondo; ma che, nella solitudine dei nostri quindici anni, significava soprattutto che tre o quattro persone amici o presunto, tenevano concerti sotto lo stesso nome, spesso preso a caso dal dizionario, come lo era stato Dada), erano ancora giovanissimi nel 1978, il loro impegno in nome della distruzione o della rivoluzione, parole che stavano benissimo insieme come in una La canzone francese dei Beatles, li ha già resi adulti ai nostri occhi.

Hanno cantato bene Niente più eroierano diventati uno, loro malgrado. Sulle pareti delle nostre stanze, dovevamo alzare lo sguardo per vederle come effigi già iconiche. La società dello spettacolo non paga le parole, hanno ripristinato una verticalità che, in fondo, non volevamo o non volevamo più. L'aria del nulla, hanno tenuto discorsicome questi politici che ci erano indifferenti. Ammiravamo molto, in questa fortezza che era il nostro essere più intimo, i “gruppi” che sostenevano: alcuni, l'insurrezione; chi, le rivolte; quale, la liberazione sessuale o qualunque altra meno priapica (non eravamo già più dalla parte del godimento competitivo ambizioso). E chi, pace anche se questo puro segmento di mercato ci apparisse ormai in tutta la sua falsità. Tra i nostri preferiti fin dall'inizio c'erano anche tutti i gruppi che sostenevano, in una forma diavatar, stupidità. Una parola che i nostri genitori e insegnanti usavano costantemente per ferirci riferendosi al nostro status di bestia. Divenuti a nostra volta genitori, non smetteremo mai di chiedere scusa ai nostri stessi figli per l'uso di un termine così ignominioso. Ben prima di questa maturità, volevamo già a Il signor odia la cui “stupidità”, per una volta, sarebbe il punto di forza.

Il bipolarismo appariva come una forza perversa della vita di cui Robert Smith non era l'eroe, ma l'araldo.

Infatti, quello che ci aspettavamo come messia e che sarebbe stato Robert Smith contro ogni aspettativa, avrebbe dovuto assomigliare ad un eroe oblonomiano che avrebbe una sola parola d'ordine: “ Andiamo a letto “. Non per cazzeggiare, ovviamente, secondo l'evidenza sempre acquisita della pop ordinaria, quella che alla fine ci ha deluso. Ma al contrario, andare a letto con uno stato d'animo che voleva essere allo stesso tempo meditativo e strategico, in un letargo nevrastenico proustiano, se vogliamo. Andare a letto, nascondersi sotto le coperte dei libri o dei dischi, nel futon dei genitori divorziati, che sarebbe diventato soprattutto quello di tutti i nostri: “e se noi!” “.

All'epoca, c'era molta derisione per questi cosiddetti singoli pop che Robert Smith pubblicò dopo due o tre album decisivi che sembravano scolpiti nel marmo funebre. Questi singoli sono stati improvvisamente segnati da una pulsione di vita come il ciclo pieno di linfa del bipolarismo che abbandona la dicotomia tra psicosi e nevrosi. Fu infatti due anni dopo l'apparizione di The Cure, nel 1980, che uscì la terza edizione di Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali farebbe quindi apparire il termine bipolarità in rottura con le classificazioni consuete. Apparendo psichicamente come la speranza della disperazione o la disperazione della speranza, il bipolarismo è apparso come una potenza perversa della vita di cui Robert Smith non era l'eroe, ma l'araldo.

Se c'è una data inaspettata da ricordare nella nostra esistenza, è quella dell'1È Novembre 2024. Quarantacinque anni fa tutti i negozi di dischi sarebbero stati chiusi il giorno di Ognissanti con la sua giostra di crisantemi. Ma la scristianizzazione della nostra società, di cui nessuno si lamenterà, almeno tra gli appassionati di questo paganesimo pop che i Cure hanno ben incarnato, fa sì che oggi i negozi siano aperti. Passando accanto ad alcuni ciclisti, cammino per Parigi per andare a comprare “la nuova Cure”. Dopo alcune scale mobili molto anni '70, entro nel negozio. Naturalmente i dischi si trovano nel terzo seminterrato, l'unico che resisterà ai futuri bombardamenti. Una novità, infine, nella mia povera vita: devo esitare per circa 17 secondi tra il formato vinile o quello CD. Poi pago da solo, con la mia carta contactless, scansionando il codice a barre al terminale, anche questa è una novità. In quarantacinque anni non siamo mai stati così solitari e amanti del consumo.

Vado a casa. Vedo che i critici scrivono: “È abbastanza normale che il nuovo The Cure esca nel giorno di Ognissanti” che in qualche modo è diventato Halloween. Ascolto il disco. Una volta. Due volte. E anche tre per rassicurare il mio mondo. Tanto che da esperto posso certificarlo Canti di un mondo perduto è un ultimo disco falso. Per fortuna un bel fake, quanto più rassicurante possibile, dove Robert Smith e i Cure persistono nel loro essere, come dovrebbero. Non c'è niente da dire che siamo felici di ritrovare la sua voce cotonosa quasi intatta. Tutto oscilla lì, come il primo giorno. Ma, dalla prima canzone all'ultima, si sostiene che questo album dei Cure sia la pietra miliare definitiva nella loro discografia.

Inizia, nel Soloun pezzo virtuosistico da cui sembra essere sfuggito Pornografiacon le prime parole che Robert Smith canta: “ Questa è la fine/di ogni canzone che cantiamo “. Tutto qui suggerisce che odora di pino. E tuttavia no, ovviamente, come il secondo titolo, di una polarità febbrile completamente diversa, giustamente chiamata E niente è per sempreva e lo racconta. In terza posizione, la hit che già conoscevamo da Internet, Cosa fragileprobabilmente uno dei pezzi più perfetti che Robert Smith abbia mai composto, che termina con ” sarò con te fino alla fine “. Parole che colpiscono duramente il bipolare che ricorda che durante ciascuna delle sue separazioni sentimentali, diceva a se stesso, in modo colpevole: “Ma Robert sta sempre con Mary”.

A differenza di noi, Robert Smith conosceva il segreto dell'amore infinito? Così, questi falsi funerali si susseguono nonostante tutto (se si eccettuano gli insolenti assolo di Reeves Gabrel, questo sub-Robert Fripp che, ricordo, ci dava già fastidio con Bowie) con grande soddisfazione per Non posso mai dire addio che dovrebbe presto concludere in grande stile tutti i futuri concerti. Fino all’ottavo ed ultimo titolo opportunamente intitolato: Fine canzone. Una quintessenza di Cure: uno dei suoi falsi finali dall'aspetto definitivo che danno speranza, nonostante tutto. “ È tutto finito » cantava Smith a volontà.

Alla guarigione come alla guarigione.

Canzoni di un mondo perdutoThe Cure, 1er novembre 2024.

Arnaud Viviant

Giornalista, critico letterario e scrittore

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