Non è un film sul giornalismo – e nemmeno un po’, sul giornalismo – e questa è una buona cosa. È un documentario, senza dubbio, non ci sono attori, è girato sul posto, racconta fatti realmente accaduti. È una commedia, si ride molto. Ma visto che a volte abbiamo le lacrime agli occhi, dovremmo dire anche che è una tragedia? È un road movie, sì, la storia di un viaggio in Afghanistan nel 2002. Riverboom resiste alla classificazione in un genere o nell’altro e questa è una delle sue grandi qualità. È stato quasi per caso che Claude Baechtold abbia accompagnato il giornalista svizzero Serge Michel e il fotografo italiano Paolo Woods sulle strade afghane, un anno dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, quando gli americani sbarcarono a Kabul per dare la caccia a Osama Bin Laden e ai suoi soci. Claude è allora un giovane tipografo, in lutto per i suoi genitori morti in un incidente d’auto. Dopo aver raggiunto Kabul in macchina da Vevey con Serge Michel e non aver potuto tornare in Svizzera per mancanza di aereo, comprò una macchina fotografica al bazar e salì sul sedile posteriore dell’auto che avrebbe accompagnato il giornalista e il fotografo , così come il loro interprete, sulle strade pericolose di un paese dove c’è a Pax americana non proprio pacifico. Ma questo non è un film sulla guerra. Durante la proiezione che inaugura l’uscita del film nelle sale svizzere, il regista, al quale un giornalista ha chiesto la sua opinione sulla situazione politica in Afghanistan, ha dichiarato: “Non giudico i paesi e le persone che ci vivono. In questo viaggio non abbiamo salvato nessuno in Afghanistan, è stato l’Afghanistan a salvare noi”. Riverboom è un film fantastico, pieno di umorismo e autoironia. È un film che non dà lezioni, che non si prende sul serio, quindi lo prendiamo molto sul serio. Mostra traiettorie che si intersecano, allontanamenti, avvicinamenti, assetti, relazioni con gli altri, con se stessi, con la realtà e con i sogni. Appena terminata la sessione, vogliamo rivederlo.
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