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Un perfetto sconosciuto – 2025 USA

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New York, primi anni ’60. Nel cuore della vivace scena musicale e culturale dell’epoca, un enigmatico diciannovenne arriva nel West Village dal nativo Minnesota, con la sua chitarra e un talento straordinario che cambierà per sempre il corso della musica americana. Mentre stringe relazioni intime durante la sua ascesa alla fama, alla fine si sente soffocato dal movimento folk e, rifiutandosi di essere messo in una scatola, fa una scelta controversa che avrà ripercussioni globali…

James Mangold ci ha dimostrato in passato la sua capacità di affrontare i soggetti. Seppe così rendere immortale il . È un regista a cui piace giocare con i paradossi. Non sorprende quindi vederla al timone di uno dei biopic più attesi del 2025: “A Perfect Stranger” sulla vita di Bob Dylan. Logico perché Dylan è la quintessenza del paradosso delle star, lui che ha influenzato tanti artisti in tutto il mondo, potremmo citare Bruce Springsteen che non smette mai di ricordare l’influenza nel suo modo di scrivere i testi che ha avuto la sua passione per Dylan , o anche Francis Cabrel che gli ha addirittura dedicato un album completo. Dylan è l’artista che rifiuta lo “star system” ma gioca costantemente con esso. È allo stesso tempo sconcertantemente semplice e spaventosamente complesso. Impossibile convincerlo a parlare della sua vita, del suo passato. L’uomo si nasconde costantemente dietro l’artista che esiste solo attraverso le sue canzoni. Basti dire che l’ambizione di Mangold di imbarcarsi in un biografico non è una storia facile.

Il regista, che ha scritto la sceneggiatura con Jay Cocks, al quale dobbiamo soprattutto “Gangs of New York” e “Silence” di Martin Scorsese, ha deciso di non imbarcarsi in un film biografico lineare: The Birth, The Life, Death, ma al contrario per concentrarsi su un punto di svolta nella carriera dell’artista: il passaggio dalla chitarra acustica a quella elettrica. Una scelta audace ma che permette di esplorare sia la libertà dell’artista ma anche la camicia di forza in cui lo hanno confinato il pubblico, i fan e la casa discografica. Parliamo sempre di paradosso. Dylan parla spesso di libertà nelle sue canzoni, ma alla fine si ritrova prigioniero della sua immagine. Questo sconvolgimento, che oggi ci sembra così aneddotico, non si è verificato, ovviamente, nell’America degli anni ’60 e soprattutto nel mondo del Folk, corrente abbastanza vicina al country, ma che si distingue soprattutto per un dipinto della società in cui gli autori delle loro canzoni si evolvono.


La prima grande idea di James Mangold è ovviamente quella di non voler raccontare la vita di Dylan in modo puramente lineare, ma di interessarsi prima all’artista iniziando la sua storia con i primi passi fino al punto di svolta o di rottura in cui Bob Dylan abbandona la sua chitarra Folk per una Chitarra Elettrica. Mangold illustrerà tutte le sfaccettature conosciute del cantante, in particolare il suo complesso rapporto con la gente o la fama che cercava ma dalla quale fuggiva costantemente per paura dei fan e della loro isteria. Il regista non lascia nulla al caso e ancor meno l’importanza di Woody Guthrie, quello che Dylan considera, come molti cantanti folk, come il proprio padre spirituale: Woody Guthrie, allora prossimo alla fine della sua vita e che il cantante verrà a vedere come se ha bisogno della sua benedizione per le scelte che fa. Altro personaggio importante nella costruzione del mito, Pete Seeger, altro pilastro della musica Folk, che per primo individuerà le straordinarie potenzialità del giovane artista e gli darà una possibilità. I rapporti non furono sempre buoni, ma la presenza di Seeger è inseparabile dalla carriera di Bob Dylan. E poi c’è ovviamente Joan Baez, cantante, ora un po’ dimenticata, purtroppo mentre portava tanta battaglia attraverso le sue canzoni: opposizione alla guerra del Vietnam, lotta per i diritti civili degli afroamericani, attivista femminista e così via. Ha ipnotizzato il pubblico con la sua voce cristallina. Lei e Dylan nutrono una complicata storia d’amore tra due visioni artistiche radicalmente diverse eppure così complementari.


James Mangold abbraccia tutte le sfaccettature dell’artista e non rinuncia al Best Of, ma cerca innanzitutto di gettare nuova luce su di lui. Ispirato al romanzo di Elijah Wald: “Dylan Goes Electric”, il film beneficia di una messa in scena che privilegia le canzoni dell’artista per capirlo meglio e la performance sempre precisa e impeccabile di Timothée Chalamet (Dune), che conferma , ancora una volta, tutte le cose belle che pensiamo di lui. L’attore che canta tutte le canzoni presenti nel film, impone una performance che evita la caricatura e gioca chiaramente con un mimetismo intelligente, quello che consiste nel fare solo ciò che serve al personaggio e non ciò che gli somiglia.

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